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— Mi meravigli, Lev, — annuncia. — E tutti voi mi meravigliate. Ancora non vi siete stancati di stare qui?

— Stiamo lavorando, — ribatto pigramente.

— Perché lavorare senza un senso?

— Perché senza un senso? Lo vedi da solo, quante cose siamo venuti a sapere in un giorno.

— È proprio questo che chiedo: perché dovete sapere cose che non hanno un senso? Che cosa ve ne farete? Volete sapere sempre di più e non vi serve a niente quello che sapete.

— Cioè, per esempio? — chiedo.

Ščekn è un grande amante delle discussioni. Ha appena avuto una vittoria e ora brucia chiaramente dalla voglia di averne un’altra.

— Per esempio, la fossa senza fondo che ho trovato. A chi e perché può servire una fossa senza fondo?

— Non è proprio una fossa, — dico. — È piuttosto la porta di ingresso in un altro mondo.

— Potete entrare in quella porta? — si informa Ščekn.

— No, — ammetto. — Non possiamo.

— A che vi serve una porta attraverso cui non potete entrare?

— Oggi non possiamo, ma domani potremo.

— Domani?

— In senso lato. Dopodomani. Fra un anno…

— Un altro mondo, un altro mondo… — brontola Ščekn. — State forse stretti in questo?

— Come dirti… È stretto per la nostra immaginazione.

— Figuriamoci! — esclama Ščekn velenoso. — Vale proprio la pena, andare a finire in un altro mondo per cercare di rifarlo il più simile possibile al proprio. E naturalmente, anche questo diventerà stretto per la vostra immaginazione, e allora ne cercherete ancora un altro e di nuovo cercherete di rifarlo…

Interrompe bruscamente la sua filippica, e nello stesso istante sento la presenza di un estraneo. Qui. Vicino. A due passi. Dall’altra carte del basamento con il mostro mitologico di pietra.

È un aborigeno assolutamente normale — a giudicare da tutto — della categoria “uomini”. Un giovanotto forte e ben fatto, con pantaloni e giubbotto di tela cerata incatramata sul corpo nudo, e un fucile a ripetizione portato ad armacollo. La chioma spettinata gli cade sugli occhi, le guance e il mento sono lisci e sbarbati. Sta accanto al basamento assolutamente immobile e solo gli occhi, senza fretta, passano da me a Ščekn e viceversa. A quanto pare, al buio non vede peggio di noi. Non capisco come abbia fatto ad avvicinarsi così silenziosamente e senza farsi notare.

Porto cautamente la mano dietro la schiena e accendo il traduttore.

— Avvicinati e siediti, siamo amici, — dico solo con le labbra.

Dal traduttore con un ritardo di mezzo secondo vengono dei suoni gutturali non privi di fascino.

Lo sconosciuto ha un tremito e fa un passo indietro.

— Non aver paura, — dico. — Come ti chiami? Io mi chiamo Lev e lui Ščekn. Non siamo nemici. Vogliamo parlare con te.

No, non ne viene fuori nulla. Lo sconosciuto indietreggia ancora e si nasconde per metà dietro il basamento. Il suo viso continua a non esprimere nulla, e non è nemmeno chiaro se capisca quello che gli viene detto.

— Abbiamo buon cibo, — non mi voglio arrendere. — Forse hai fame o vuoi bere? Siediti con noi, ti offrirò volentieri qualcosa…

All’improvviso mi viene in mente che per l’aborigeno deve essere un po’ strano sentire “noi” e “con noi”, e passo in fretta al singolare. Ma non serve. L’aborigeno si nasconde del tutto dietro al basamento, e ora non si vede e non si sente.

— Se ne va, — ringhia Ščekn.

Ed ora vedo di nuovo l’aborigeno. Con passo lungo, leggero, senza fare alcun rumore, attraversa in strada, cammina sul marciapiede di fronte e, senza girarsi indietro nemmeno una volta, sparisce in un portone.

2 giugno dell’anno 78. Lev Abalkin in persona

Intorno alle 18.00 capitarono da me (senza preavviso) Andrej e Aleksandr. Nascosi la cartella nella scrivania e subito annunciai severo che non avrei tollerato discorsi di lavoro, tanto più che ora non dipendevano da me ma da Clavdij. Inoltre, ero occupato.

Loro cominciarono a lamentarsi perché non erano affatto venuti per ragioni di lavoro, ma perché avevano sentito nostalgia di me e perché così non andava proprio. Furono bravi a far la lagna. Cominciai ad ammorbidirmi. Aprimmo il bar e, per un po’, chiacchierammo animatamente dei miei cactus. Poi, all’improvviso, mi accorsi per caso che non stavano più parlando dei cactus ma di Clavdij, e la cosa era anche giustificata perché Clavdij era un tipo così spinoso e bernoccoluto che faceva subito venire in mente un cactus, ma non feci in tempo a dire «ah» che quei giovani provocatori Con grande abilità e naturalezza erano passati a parlare del caso dei bioreattori e del “Capitano Nemo”.

Facendo finta di niente, li lasciai riscaldare, e poi, proprio nel momento culminante, quando ormai avevano deciso che il loro capo era bello e spacciato, li pregai di levarsi di torno. E stavo per cacciarli via, perché ero proprio arrabbiato, con loro e con me stesso, quando (pure lei senza preavviso) apparve Alena. È il destino, pensai, e me ne andai in cucina. Tanto era ormai ora di cena, e persino i giovani provocatori si rendevano Conto che non era il caso di parlare di cose di lavoro davanti agli estranei.

La cena fu molto piacevole. I provocatori, ormai dimentichi di tutto, fecero la ruota davanti ad Alena. Quando lei tagliò corto, mi misi io a far la ruota, se non altro per mantenere animata la conversazione. Questo pavoneggiarsi sfociò in una lunga discussione: dove andare? Aleksandr pretendeva di andare all’Octopus, ed al più presto, perché le cose migliori lì sono all’inizio. Andrej si infervorava, come un vero critico musicale; i suoi attacchi contro l’Octopus erano appassionati e sorprendentemente privi di contenuto, la sua teoria sulla musica contemporanea colpiva per la sua freschezza e si riduceva al fatto che, quella notte, era proprio il momento giusto per provare le vele del suo nuovo yacht «Il saggio». Io ero per le sciarade o, al limite, per il gioco dei pegni. Alena, avendo capito che io quella sera non intendevo uscire e che avevo da fare, si risentì e cominciò a far casino. «Al diavolo l’Octopus! — gridava. — Ammainiamo le vele! Facciamo baldoria!» E così via.

Nel pieno di questa discussione, alle 19.33, fischiò il videofono. Andrej, che era il più vicino all’apparecchio, premette il tasto. Lo schermo si illuminò, ma l’immagine non apparve. E non si sentiva nulla, perché Aleksandr gorgheggiava a piena voce: «Le isole, le isole, le isole!…», accompagnando il canto con dei movimenti del corpo nel tentativo di imitare l’inimitabile V. Tuareg, mentre Alena gli contrapponeva la Canzone senza parole di Glière[17] (ma forse non è di Glière).

— Silenzio! — berciai, raggiungendo il videofono.

Ci fu un po’ più di calma, ma l’apparecchio continuava a tacere e lo schermo rimaneva vuoto. Difficilmente si trattava di Sua Eccellenza, perciò mi tranquillizzai.

— Aspetti, sposto l’apparecchio, — dissi rivolto allo scintillio azzurrino.

Nello studio misi il videofono sulla scrivania, mi accomodai in poltrona e parlai:

— Ecco qui c’è un po’ più di silenzio… Solo, tenga presente che io non la vedo.

— Mi scusi, ho dimenticato… — fece una bassa voce maschile, e sullo schermo apparve un volto stretto, bluastro-pallido, con delle profonde pieghe ai lati del naso fin giù ai mento. Un’ampia fronte bassa, grandi occhi profondamente infossati, capelli neri lisci che arrivavano fino alle spalle.

È curioso: lo riconobbi, ma non capii subito chi fosse.

— Salve, Mak, — disse. — Mi riconosce?

Ebbi bisogno di qualche secondo per riprendere il controllo. Ero assolutamente impreparato.

— Certo, certo… — tirai per le lunghe, pensando febbrilmente a come mi dovevo comportare.

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17

Reinhold Moritzovič Glière (1875–1956), compositore sovietico di origine belga.

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