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Saul con un sospiro si mise lo zaino sulla spalla e fece per prendere lo skorcer rimasto sul sedile.

— No, questo lo lasci lì, — disse Anton.

— No, questo lo prendo, — ribatté Saul. E si mise a tracolla il cinturone con la fondina.

— La prego, Saul. Lei ha paura e potrebbe sparare.

— Certo che ho paura. Ho paura per voi.

— L’avevo capito, — disse Anton, paziente.

Saul fece per scendere.

— Saul Repnin, — disse Anton con voce metallica. — Mi dia l’arma!

Saul si sedette.

— Lei non sa sparare, — disse.

— So sparare, — disse Anton, guardandolo negli occhi.

Ogni volta è così, pensava con rabbia. Ogni volta, nel momento più importante qualcuno si fa prendere dai nervi. E bisogna cercare di farlo ragionare invece che mettersi al lavoro.

Saul consegnò lo skorcer. Anton se lo infilò alla cintura e balzò a terra accanto a Vadim che, zaino in spalla, testa china, si sistemava sulla tempia un cristallo mnemonico, e seguiva con curiosità le gesta del suo capitano.

— Allora prendo il terzo zaino, — disse Saul, come se non fosse successo niente.

— Sì, per favore, — disse Anton gentilmente.

Cominciarono a scendere nella conca.

— Se succede qualcosa, — disse Saul, — spari in aria. Scapperanno subito tutti.

Anton non rispose. Pensava al da farsi.

— Vadim, — chiamò. — Sarai capace di farti capire da loro?

— In qualche modo ci riuscirò. Piuttosto, ora dipende da te. Se tu fossi un medico vero, non mi preoccuperei affatto.

Sì, pensò Anton, se fossi un medico vero… Ovviamente sono degli umanoidi. E la loro anatomia, probabilmente, non è molto diversa dalla nostra. Ma per quel che riguarda la fisiologia…

Ricordò le terribili conseguenze provocate dal semplice iodio sugli umanoidi di Tagora.

— Sarebbe importante capire come funzionano le macchine, — disse Vadim preoccupato. — Li potremmo tirar fuori di qui. Forse, è proprio quello di cui hanno bisogno. Ma perché non li aiuta nessuno? Che razza di pianeta!… Non mi meraviglierei se scoprissimo che tutte le loro città sono state distrutte.

Erano già a metà della conca, quando Saul disse:

— Aspettate un momento.

Tutti si fermarono.

— Che cosa succede? — chiese Anton. — È stanco?

— No, — disse Saul. — Non sono mai stanco. — Guardava fisso in basso. — Vedete quella strana macchina da una parte? Quella lì, la più vicina. Sopra, c’è un uomo in grigio…

— La vedo, — rispose incerto Anton.

— Faccia uno sforzo… Lei ha occhi più giovani dei miei…

Anton aguzzò lo sguardo.

— C’è un uomo seduto, — disse e subito si interruppe. — Strano… — borbottò.

— C’è un uomo in pelliccia, seduto, — annunciò Vadim. — Ecco quello che vedo. Impellicciato fino agli occhi.

— Non ci capisco niente, — disse Anton. — Forse è malato?

— Forse, — disse Saul. — Ed ecco ancora due malati. È un po’ che li guardo. Solo sono molto lontani…

Sul lato opposto della conca, sullo sfondo bianco del cielo si delineavano due nere figurine villose. Stavano assolutamente immobili, a gambe larghe, e tenevano in mano delle lunghe aste sottili.

— Cosa hanno in mano? — chiese Vadim. — Delle antenne?

— Antenne? — ripeté Saul, aguzzando gli occhi. — Mi pare di aver capito che antenne sono…

Un grido acuto risuonò nella conca. Anton sussultò. Un motore emise un rombo assordante, cui fece coro una serie di grida lamentose, ed essi videro una enorme macchina, simile a un carro armato anfibio, che si mise a girare su se stessa e, all’improvviso, aumentando sempre di più la velocità, si slanciò proprio su una fila di uomini. Piccole figure umane balzavano fuori dalla torretta della macchina e cadevano torcendosi nella neve smossa. La fila non si mosse. Anton si coprì la bocca con le mani, per non urlare. Fra i rombi e il rumore di ferraglia echeggiò un alto grido lamentoso e, allora, la folla si serrò e marciò compatta verso il carro armato. Anton non resisté, chiuse gli occhi. Gli pareva che, oltre al rombo del motore, si sentisse un intollerabile scricchiolio umido.

— Dio mio… — borbottava piano Saul al suo fianco. — Oh, Dio mio…

Anton si impose di aprire gli occhi. Al posto del carro armato adesso c’era un’enorme piramide umana che avanzava lentamente, piegandosi sempre più su un fianco. Dietro di essa si stendeva sulla neve una vivida scia rossa. Intorno a questo groviglio di corpi c’era il vuoto. Solo quattro uomini impellicciati avanzavano lentamente in questo vuoto, senza staccarsi di un passo dal carro armato.

Anton volse macchinalmente lo sguardo verso gli uomini che reggevano le aste. Stavano fermi nella posizione di prima, del tutto immobili. Solo uno di loro, a un tratto, con un movimento lento passò l’asta da una mano all’altra e di nuovo ritornò immobile. Pareva che nemmeno facessero caso a ciò che succedeva in fondo alla conca.

Il rombo del motore si interruppe. Il carro armato era caduto di fianco e la gente stava strisciando via senza fretta. Allora Vadim, senza dire una parola, gettò il suo zaino giù per il pendio e con balzi da gigante lo seguì. Anton pure corse verso il basso. Mentre correva sentì Saul, che gli stava alle calcagna, che imprecava, sbuffando: «Ah, canaglie! delinquenti!…

Quando Anton arrivò al carro armato, gli uomini vestiti di sacchi avevano già formato una fila e gli uomini in pelliccia andavano avanti e indietro e gridavano con una voce sorda e lamentosa. Vadim, tirandosi dietro lo zaino sporco di fango e di sangue, strisciava fra i corpi sparsi sotto il carro armato, ed era disperato:

— Qui ci sono solo morti… Qui sono già morti tutti…

Anton si guardò intorno. Affannati, bagnati di sudore e di neve sciolta, appena appena coperti dai sacchi grigi a brandelli, gli uomini lo guardavano con occhi torbidi e immobili. E gli uomini in pelliccia, raccoltisi in gruppo da una parte, lo fissavano pure loro. Per un istante gli parve di avere davanti un antico quadro verista: centinaia di figure immobili lo fissavano con occhi vitrei.

Si riprese. I feriti che Vadim cercava erano di nuovo in fila. C’erano un vecchio alto e ossuto, col volto umido di sangue; un ragazzo che si stringeva al petto una mano piegata in modo innaturale; un uomo completamente nudo, dalla faccia grigia, che si stringeva il ventre con le dita dalle unghie dorate; un altro, con gli occhi chiusi, si stringeva una gamba, dalla quale usciva un nero zampillo di sangue… Tutti i vivi stavano in fila.

— Calma, — disse Anton a voce alta. Si chinò, aprì lo zaino dei medicinali ed estrasse un barattolo di colloide. Svitando il coperchio del barattolo si avvicinò all’uomo con la gamba ferita. Vadim lo seguiva con un rocchetto di cerotto a tampone.

— … È una brutta ferita… I muscoli sono a brandelli, il sangue ha quasi smesso di uscire. Perché non si siede?… Perché nessuno l’aiuta a reggersi? Ecco il colloide… Adesso bisogna mettere il cerotto… Mettio dritto, Vadim, non far uscire fuori il colloide… Ma perché stanno tutti in silenzio? Ecco, questo sta ancora peggio. Ha il ventre a pezzi… Praticamente è morto. Come fa a stare in piedi?… Questo si è slogato una mano; roba da poco… Tienigli fermo il braccio, Vadim! Più forte! Come mai non grida? Perché non grida nessuno? Là è caduto qualcuno… Ma aiutatelo ad alzarsi, voi che siete sani!…

Qualcuno lo toccò a una spalla e lui si voltò di scatto e si trovò davanti uno degli impellicciati. Aveva la faccia rubizza un po’ sporca, gli occhi socchiusi, il naso che gocciolava. Teneva le mani guantate di pelliccia incrociate sul petto.

— Salve, salve… — disse Anton. — Poi… Vadim, veditela tu.

L’uomo in pelliccia scosse la testa e cominciò a parlare in fretta, e subito Vadim gli rispose con un’intonazione molto simile. Quello tacque, guardò sorpreso Vadim, poi di nuovo Anton e si ritirò. Anton, con un gesto rabbioso, si aggiustò il pesante skorcer nella cintura, e si voltò verso un ferito che stava in piedi e si copriva il volto con le mani. E tutti quelli che stavano alla destra di Anton si coprivano il volto con le mani, eccetto quello, ormai morto, dalla faccia grigia, che continuava a tenersi il ventre.

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