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— Pace! — disse Vadim e sollevò le braccia.

Gli impellicciati arretrarono ancora un poco. Dalle bocche uscivano nuvolette di vapore e puzzavano di caprone. Sotto i cappucci luccicavano occhi spaventati e denti scoperti. Il grassone sulla veranda fece un lungo discorso. Era incredibilmente alto e grasso. Anche la sua faccia, tremolante di grasso e lucida di sudore, aveva proporzioni straordinarie. Parlando si chinava, balzava in piedi, agitava la spada ora sotto i suoi piedi ora verso il cielo, e parlava con una voce lamentosa, effeminata e innaturalmente alta. Vadim ascoltava a capo chino. I cristalli mnemonici che portava sulle tempie registravano le parole e le intonazioni sconosciute e davano le prime, approssimative traduzioni. Parlava di minacce, di qualcosa di grande e possente, di terribili punizioni… Il grassone all’improvviso tacque, si asciugò con la manica la faccia sudata, e, ormai sfiatato, emise un gemito breve e secco. Nella sua voce si sentiva la sofferenza. Gli uomini con le picche all’istante si chinarono e cominciarono ad avanzare lentamente verso Vadim.

— Beh, è tutto chiaro, — disse Saul. — Cominciamo?

Appoggiò la canna dello skorcer sull’orlo dell’oblò.

— Fermo, Saul, — disse Anton. — Vadim, rientra in cabina!

— Ma di cosa si preoccupa? — disse Saul con ira. — Non vede che sono bestiacce immonde, delle SS! Dei rospi!

Gli impellicciati continuavano ad avanzare a piccoli passi. Quando le cuspidi luccicanti sfiorarono il petto di Vadim, questi fece un passo indietro, si voltò e risalì a bordo del bioplano.

— Una tipica lingua agglutinante, — dichiarò, sedendosi. — Hanno un vocabolario molto limitato. Comunque è chiaro che non vogliono la pace.

— Potremmo almeno spaventarli, — propose Saul. — Spariamo in aria e li vedremo calar le brache!

Anton chiuse il portello. Gli impellicciati tornarono verso la veranda e sollevarono le picche. Guardavano tutti il bioplano. Sulla faccia larga del grassone vagava un sogghigno di disprezzo.

— Ma insomma, — proruppe Saul. — Avete bisogno di un prigioniero, sì o no? Allora prendiamo il grassone! Sembra proprio un Raportführer!

— Ma cerchi di capire, — ribatté Anton esasperato, — se non vogliono avere a che fare con noi, è nei loro diritti! Che cosa possiamo farci?

— Avete o no bisogno di un prigioniero? — ripeté Saul. — Il vantaggio della sorpresa ormai l’abbiamo perso. Qui dovremo dare battaglia. Ma c’è ancora quel rospo schifoso che è partito in slitta.

Ma guarda che lessico! pensava ammirato Vadim. Proprio come uno del XX secolo. Che specialista in gamba! Guardò Anton. Anton era pallido e indeciso. Vadim non lo aveva mai visto in quello stato.

— Delle due l’una, — continuava Saul. — O vogliamo scoprire quello che sta succedendo qui oppure ce ne torniamo sulla Terra, per far posto ad esploratori un po’ più in gamba. E bisogna che ci spicciamo a decidere, fin tanto che ci puntano addosso solo picche…

Perdiamo tempo, pensò Vadim. Finora abbiamo solo perso tempo. E nelle baracche continuano a morire.

— Toška, — disse. — Raggiungiamo la slitta. Là c’è solo uno con la picca, sarà più facile. Gli togliamo la picca e lo facciamo salire a bordo della navicella.

— Stanno sghignazzando, quei rospi, — sbottò Saul, guardando da un finestrino.

Mostrò significativamente il pugno al grassone sulla veranda. Quello fece spallucce e agitò altrettanto significativamente la spada.

— Avete visto? — disse Saul con cupa allegria. — Ci capiamo, vero?

— Farò un altro tentativo, — disse Anton e spalancò il portello. Il grassone gridò. Uno dei suoi uomini, piegatosi all’indietro, scagliò con forza la picca. La cuspide di ferro slittò rumorosamente sul vetro. Saul addirittura si accoccolò.

— Te la sei voluta… — urlò di scatto.

Anton fece appena in tempo ad afferrargli il braccio, e i suoi occhi erano come due fessure nere.

— Ho capito, — disse con voce strozzata e sospirò. — Vadim, torna indietro!

Vadim voltò il bioplano.

— Trova la slitta! — ordinò Anton e si appoggiò allo schienale della poltrona. — Qui non scopriremo niente, — aggiunse. — Siamo davanti ad un muro di ottusità impenetrabile.

— Spari un colpo in aria, — disse Saul con noncuranza, — e potrà prenderli a mani nude.

Anton tacque. Il bioplano sorvolò la strada deserta ed in capo a qualche minuto volava sui campi.

— Le dico solo una cosa, — sbottò Anton. — Alla fine avremo di che vergognarci.

— Ma che cosa possiamo fare? — chiese Vadim. — Ci sono uomini che stanno morendo!

— Se almeno sapessi che cosa fare, — disse Anton. — La Commissione non ha previsto circostanze del genere.

Che Commissione? voleva chiedere Vadim, ma Saul parlò prima di lui:

— Ma la smetta di perder tempo. Se vuol fare del bene, lo faccia attivamente. Il bene deve essere più attivo del male, se non vuole arenarsi.

— Il bene, il bene, — brontolò Anton. — Chi ha voglia di essere uno sciocco zelante?

— Ha ragione, — disse Saul. — Ma almeno avrà la coscienza tranquilla.

Raggiunsero la slitta a cinque chilometri dal villaggio. Gli uomini correvano sulla neve intatta, inciampando e cadendo, e l’uomo in pelliccia, sdraiato sulla slitta, di tanto in tanto punzecchiava pigramente con la picca quelli più lenti.

— Scendo, — disse Vadim.

— Atterra davanti alla slitta, — ordinò Anton, — e parlaci. Saul, mi dia lo skorcer, e rimanga seduto. Quello non è un rospo schifoso ma un uomo.

— Va bene, — disse Saul. — Eccole lo skorcer. Ma se infilza Vadim con la picca? Invece di stare a chiacchierare…

Vadim disse:

— Gli toglierò la lancia. Poi taglieremo le corregge, e daremo cibo e vestiti a quei poveracci.

— Giusto, — disse Anton.

Il bioplano piombò a terra davanti al convoglio, e gli uomini-cavallo si arrestarono come pietrificati. Vadim saltò giù. Gli uomini vestiti di sacchi rimasero immobili, coprendosi il volto con le mani. Ansimavano pesantemente, con un sibilo. Mentre correva verso la slitta, Vadim gridò loro allegramente:

— È finita, amici! Adesso tornerete a casa!

Procedendo verso la slitta, si preparò a scansare la picca. L’uomo impellicciato si era messo in ginocchio e lo guardava con paura e stupore, reggendo la picca a bilanciere.

— Vieni, — gli disse Vadim, afferrando l’asta di legno.

L’uomo in pelliccia lasciò subito la picca ed estrasse una spada balzando in piedi.

— Ma no, sta’ calmo, — disse Vadim, gettando lontano la picca.

Improvvisamente l’impellicciato emise uno dei soliti urli, lunghi e lamentosi. Vadim lo afferrò per la mano che reggeva la spada, e lo tirò a sé. Si sentiva molto a disagio. L’impellicciato cercò di liberarsi, e Vadim lo afferrò più saldamente.

— Su, su, tutto andrà bene. Andrà tutto a posto, — diceva in tono persuasivo, distendendogli le dita sudate che stringevano l’elsa. La spada cadde nella neve. Vadim prese l’impellicciato per le spalle e lo condusse verso il bioplano, borbottando parole cortesi e sforzandosi di imitare la cadenza locale. Risuonò un grido di avvertimento di Saul e subito Vadim si sentì assalito. Mani deboli e tremanti lo afferrarono per il collo e per le gambe.

— Ma che siete ammattiti? — berciò Saul con rabbia. — Anton, li fermi!

L’impellicciato tornò di nuovo a divincolarsi con forza. Buttarono in testa a Vadim uno straccio fetido, ed egli non vide più nulla. Si reggeva a stento nel groviglio dei corpi, e abbrancava con tutte le sue forze l’uomo in pefficcia. Poi sentì una fitta acuta ad un fianco. Lasciò il suo prigioniero, scrollò le spalle e, liberatosi dagli assalitori, si strappò dalla testa il sacco maleodorante. Vide gli uomini sparsi sulla neve ed Anton che avanzava verso di lui, scavalcandoli. Si voltò e si trovò di fronte a un uomo nudo che brandiva la spada.

— Ma perché? — disse Vadim.

L’uomo gli assestò un colpo, ma non riuscì a tener dritta la spada, e diede a Vadim una piattonata su una spalla. Vadim gli diede una spinta, quello cadde nella neve e rimase immobile. Vadim raccolse la spada e, alzato il braccio, la gettò lontano. Si sentiva scorrere su un fianco qualcosa di caldo e umido. Si guardò intorno.

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