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— Questa è una storia che non conosco — disse l’individuo. — O almeno non mi suona familiare. Di dove sei?

— Il mio popolo vive a est di qui. È il Popolo del Rame della Pianura. Io sono il loro oracolo. Viaggio con queste persone — indicò Derek e me con un cenno della mano — perché il mio spirito mi ha ordinato di farlo.

"L’altra persona che sta con noi, la donna che si tiene nell’ombra, è stata cresciuta fra il Popolo del Ferro."

— Atcha. - L’individuo guardò Nia. — Molti fra la tua gente vengono qui. Li traghetto oltre il fiume. Come ti chiami?

Nia non disse nulla.

— Ti vergogni — disse la persona in giallo. — Posso capirlo. Stai viaggiando con individui molto strani. Ti dirò qualcosa. Non mi importa. Tutti devono venire da me, anche quelli che preferirebbero nascondersi o mantenere segreto quello che fanno. Ho visto uomini che viaggiano insieme. Ho visto donne che amano viaggiare sole. Li porto da una riva del fiume all’altra. Tengo la bocca chiusa. Non critico.

— Il mio nome è Nia e non mi vergogno di queste persone.

L’individuo ci guardò di nuovo. — Devo dire che sono davvero strani. Io sono Tanajin. Sono cresciuta a sud di qui. La mia gente, la gente che mi ha cresciuta, vive negli acquitrini dove il Grande Fiume entra nella pianura di acqua salata. Il loro dono è il cuoio, che è fatto con la pelle degli umazi, che sono lucertole più grandi di qualunque altra si trovi nel fiume.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Io sono Lixia — dissi. — Questo è Derek. Il mio popolo è chiamato gli Hawaiani; il suo gli Angelinos.

— È un uomo. — Tanajin fissò Derek. — Non me ne ero accorta. E tu sei una donna?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Siete i benvenuti. Legate i vostri animali dietro la mia tenda. Lì saranno al sicuro. Le lucertole non vanno a caccia fuori dall’acqua, e gli assassini-delle-foreste non amano lasciare l’ombra degli alberi.

Nia fece il gesto dell’intesa. Portò via gli animali. Derek la seguì.

C’era una grossa pietra piatta accanto al fuoco. Tanajin la spinse fra le fiamme, poi prese un bastoncino e raccolse la brace attorno alla pietra. Una superficie per cucinare. Poi fece il gesto che significava "solo un minuto" ed entrò nella tenda.

— È un uomo o una donna? — domandai all’oracolo.

— Una donna. Non riesci a capirlo?

— No. E il nome non ha una desinenza che io riconosca.

— Mi sono abituato a te — disse lui. — Continuo a dimenticare che sei completamente fuori dal comune. Ci vogliono altre persone per ricordarmelo.

Tanajin uscì, portando qualcosa che mise sulla pietra per cucinare.

Mi protesi in avanti.

— È pane. — Sollevò il pezzo superiore della pila. Era piatto e rotondo come una frittella o una tortilla.

— Non un genere che io conosca — disse l’oracolo.

— Lo faccio con le radici della pianta di talina. Cresce negli acquitrini. La usano le persone del sud. E vi aggiungo la farina che mi danno i viaggiatori quando li trasporto al di là del fiume.

— Hai una barca? — chiesi.

— Una zattera. Questi abitanti della pianura si ostinano a portare ovunque i loro animali. Non posso trasportare un cornacurve su una canoa, neppure su una grossa come quelle utilizzate dagli uomini negli acquitrini. Loro non hanno nessun’altra casa, non le tende come quelle che gli uomini portano con sé qui sulla pianura e montano quando si accampano. Quando piove gli uomini delle paludi innalzano un paio di lance, poi stendono un mantello di pelle di umazi sulle lance, e quello è il loro rifugio.

— Sembra disagevole — osservò l’oracolo.

— Non è tanto male. Sono vissuta in quel modo quando ho risalito il fiume. Ma quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono procurata una tenda. A una donna piace avere una casa che non oscilli.

Si alzò e tornò dentro la tenda. Questa volta portò fuori una scodella e un tegame. Il tegame era basso e con un lungo manico. Sembrava fatto di ferro. Lo mise sulla pietra accanto al mucchio di pane. La scodella fu appoggiata sul terreno. Era piena di un liquido biancastro.

— Ho trovato delle uova vicino al fiume stamattina. Qualche stupida lucertola ha fatto il nido nel periodo sbagliato dell’anno. Se i piccoli fossero usciti, sarebbero morti.

— Perché? — chiesi.

— Guarda le foglie! Stanno cambiando colore. — Batté leggermente sul lato della scodella. — Quando questi piccoli fossero stati pronti a uscire dall’uovo, la loro madre se ne sarebbe già andata. Non ci sarebbe stato nessuno a proteggerli. Nessuno a prendersi cura di loro.

Le lucertole erano materne. Buffo, non lo sembravano affatto.

— Dove va la madre?

— A sud lungo il fiume. Tutte quelle grosse lo fanno. Continuano a spostarsi finché non arrivano in un posto dove l’acqua non gela. Molte finiscono nelle paludi. Gli umazi le mangiano e diventano grassi e lenti, e allora è possibile cacciare gli umazi.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— E che ne è di quelle piccole? Vanno a sud?

Tanajin fece il gesto che significava "no". — Scavano delle buche nel fango lungo le rive del fiume. Si arrotolano su se stesse e si mettono a dormire e si svegliano in primavera. Tu fai un sacco di domande.

Feci il gesto dell’intesa. — Hai qualcosa in contrario?

— Se non mi va di rispondere, non lo faccio. — Rovesciò il contenuto della scodella nel tegame. Il liquido incominciò a sfrigolare.

Derek e Nia emersero dalle tenebre portando sulle spalle le nostre sacche. Derek lasciò cadere a terra quelle che portava. — Credo che darò un’altra occhiata al tuo braccio.

— Bene — rispose l’oracolo. — Fa male, e non sono del tutto certo che la tua magia funzioni qui presso il fiume. Gli spiriti di qui non possono essere gli stessi della tua terra o della mia terra. Tanajin non sa nulla dei bambini sacri.

— Nemmeno io — dissi.

— Più tardi — fece Derek. Tirò fuori la cassetta del pronto soccorso.

Il liquido nella padella gorgogliava. Tanajin tirò fuori un cucchiaio dalla sua cintura e sollevò i bordi della cosa che stava cucinando, qualunque cosa fosse. Uova strapazzate? Un’omelette? Il liquido in cima scivolò di sotto. Usando la mano libera, la donna fece il gesto della soddisfazione.

— Come sei arrivata qui? — le domandai. — Perché hai lasciato la tua casa?

— È una lunga storia. Non mi va di raccontarla. — Rivolse un’occhiata a Nia. — A te piace spiegare come ti sei allontanata tanto dal villaggio della tua gente?

— No — rispose Nia.

Tanajin si alzò in piedi. — Devo andare a prendere un’altra cosa. Tenete d’occhio le uova.

Quando se ne fu andata, Nia disse: — Non so, che cosa dovrei aspettarmi? Che cosa dovrebbero fare le uova?

Mi avvicinai di più al fuoco. Ora vedevo chiaramente la padella. Il manico era intarsiato di metallo grigio: un disegno che raffigurava animali, due creature dai lunghi corpi aggrovigliati l’uno all’altro come nastri in una treccia. Si aggrappavano l’uno all’altro con le zampe artigliate. Le teste si fronteggiavano accanto alla padella, le bocche aperte che quasi si toccavano, le lingue che uscivano a spirale fra file di denti aguzzi. Che cos’erano? Gli umazi? Tanajin aveva lasciato lì il cucchiaio. Lo usai per sollevare i bordi dell’omelette. Quasi cotta.

— Sembra che la ferita abbia sanguinato un po’ — disse Derek. — Ma non è niente di grave. Non c’è alcun segno di putrefazione.

— Bene — disse l’oracolo. — Non voglio morire.

— Non sono molti a volerlo — ribatté Nia.

L’oracolo piegò il braccio. Derek vi aveva fatto una nuova fasciatura. — Fa ancora male. Spero di non incontrare più altri spiriti come quelli della caverna. Non mi piace donare il sangue.

Le uova sembravano cotte. Sollevai la padella dal fuoco, ma la rimisi subito giù e agitai in aria la mano. — Ohi!

— Avrei dovuto avvertirti — disse Tanajin. — Il manico si arroventa. Dammi il cucchiaio.

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