"Dove sono le tue sorelle?
Dovrebbero piangerti,
dondolandosi e gemendo
sull’ingresso della tua casa.
"Dove sono le tue cugine?
Dovrebbero piangerti,
portando doni
da seppellire nella tua tomba.
"Aiya! Ahi-aiya!
Che situazione!
Neppure tu, Inahooli
meriti
di finire così."
S’interruppe per un momento, aggrottando la fronte e grattandosi la nuca. — C’è un’altra strofa — disse. — L’ho appena sentita nella mente. Dammi un momento per ordinare le parole. — Si mordicchiò l’unghia del pollice, poi cantò:
"Questa è una morte da uomo,
morire senza doni.
Questa è una morte da uomo,
morire sulla pianura".
Il sole era ormai sorto. Derek tornò dal lago. Portava con sé un paio di bisacce da sella.
— Dove sei stato? — gli domandai.
— Sull’isola, quella che hai visitato tu. — Mise giù le bisacce e ne aprì una. — Farò uno scambio con te. La mia camicia per questa. — Tirò fuori una tunica. Era di un color bianco panna con ricami rossi e blu.
Slacciai la camicia di Derek. — Hai qualcosa per Inahooli? Mi piacerebbe riprendere il mantello di Nia. Non mi sembra giusto che stia addosso a lei.
Derek lanciò un’occhiata al corpo. — È morta?
— Sì.
Aprì l’altra bisaccia e tirò fuori un mantello. Era di un color marrone ruggine con un bordo giallo. L’oracolo tolse a Inahooli il mantello di Nia. Per un attimo intravidi il suo corpo, nudo salvo per la pelliccia scura e la fasciatura fatta di tessuto denim. Poi sparì alla vista.
Derek disse: — C’era del cibo sull’isola. Carne essiccata e frutta. Ho riempito una bisaccia.
— Non è giusto, Derek. Stiamo rubando a una morta.
Lui s’inginocchiò e posò le mani sulle cosce. Rimase in quella posizione uno o due minuti, le braccia tese, la testa leggermente china, guardando il corpo sotto il mantello color ruggine. — Ascoltami, Inahooli. Prendiamo queste cose perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo freddo. Abbiamo fame. Due di noi vengono da più lontano di quanto tu possa immaginare, e forse non torneranno mai più a casa. Credimi, non lo facciamo per malvagità, né collera, né alcun cattivo sentimento, ma per necessità. — Fece una pausa. — Ti prometto che useremo con rispetto ciò che prendiamo. Non saremo ingrati, e certamente non ci serviremo di questo come scusa per fare un viaggio di forza.
"Le cose sono andate così perché così è girata la ruota della fortuna. Accettalo, Inahooli. Non essere in collera con noi." Si alzò e tornò verso di me.
— Viaggio di forza? — dissi.
— Esperienza psichedelica di potere — rispose in inglese. — Non ho trovato un modo migliore di tradurlo. — Tornò al linguaggio dei doni. — Vorrei riavere la mia camicia.
Gliela diedi. In cambio lui mi porse la tunica. Me la infilai dalla testa. Il tessuto era soffice e caldo, simile a lana di ottima qualità. Aveva un odore di pelliccia, l’odore degli alieni.
— Prendo il cibo — disse Derek. — Dopo che avremo mangiato, potremo seppellirla.
Scavammo una fossa nella sabbia presso il lago, usando i remi come badili. Derek e l’oracolo sollevarono Inahooli e la trasportarono fino alla fossa. Una vera impresa. Ansimavano e grugnivano e una volta per poco non la fecero cadere. Io portai il mantello, cosa assai più facile. La deposero nella fossa e io la coprii col mantello.
— Aspettatemi — disse l’oracolo, e si diresse verso il boschetto.
Mi massaggiai la spalla, poi guardai Derek. Si era lavato la faccia, ma aveva ancora un aspetto orribile. Il naso era rosso e gonfio, e un occhio quasi chiuso. Aveva un livido sulla fronte sopra l’occhio.
— Perché hai fatto quel discorso a Inahooli? Per rassicurare l’oracolo.
Derek annuì col capo. — E anche me. Non si deve mai prendere senza dare una spiegazione e mai uccidere senza chiedere scusa.
— Quanto sei civilizzato, in ogni caso?
Sorrise. — Non molto.
L’oracolo tornò. Portava del cibo: una striscia di carne essiccata e una manciata di bacche fresche. Le depose nella fossa accanto a Inahooli. Poi si tolse la collana d’oro e turchese e la sistemò accanto al cibo. — Forse sarà meno furiosa se le facciamo dei doni. Anche se ne dubito. È il genere di persona che mantiene la collera. Che brutto modo di essere!
Ammucchiammo sabbia sopra il corpo di Inahooli, poi trovammo delle pietre e le sistemammo in cima alla sabbia. Una volta terminato il lavoro, l’oracolo disse: — Dovremmo eseguire delle cerimonie di prevenzione e purificazione. Ma non sono una sciamana. Non conosco le cerimonie che apprendono le donne sante. Non conosco neppure le cerimonie che apprendono gli uomini per aiutarli dopo che lasciano il villaggio. Tutto ciò che so è quello che mi ha detto la cascata. — Iniziò a cantare:
"O santo!
O essere di potere!
Perché non mi aiuti?
Che dovrei fare adesso?
"O santo!
O essere di potere!
Perché non mi aiuti?
Dimmi che cosa fare!".
Inclinò il capo e restò in ascolto. Il vento soffiava. Le canne stormivano. L’acqua sciabordava sulla riva. — Tutto quello che riesco a sentire è: "Fa’ una nuotata". Forse potremo lavarci via ciò che è successo in questi ultimi giorni.
Derek fece il gesto dell’approvazione. I due si svestirono ed entrarono nell’acqua. Si lavarono nell’acqua profonda presso le canne, poi nuotarono. Io mi preoccupavo del taglio sul braccio; non volevo bagnarlo. Non credevo neppure che la spalla mi permettesse di nuotare. Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i jeans e diguazzai nell’acqua bassa, cercando conchiglie e pietre lucide. Le pietre erano prive d’interesse: frammenti consumati rotondi e ovali di una sostanza nera simile a pomice. Le conchiglie erano grziose: minuscole spirali, rosa o di un tenue color lavanda. Ne raccolsi una dozzina, poi tornai sulla spiaggia. Posai le conchiglie sulla tomba. Un gesto assurdo. A che serviva quel dono? Non credevo nell’aldilà, quindi non era un tentativo di placare con un dono la collera di Inahooli. E non era sufficiente per placare il mio senso di responsabilità
— Assassina — dissi ad alta voce.
Quello stato d’animo era pericoloso. Rifiutai di abbandonarmici. Perché avrei dovuto? Il senso di colpa non faceva parte del mio patrimonio. I membri anziani della mia famiglia l’avevano disapprovato. Bisogna riconoscere gli errori e ammetterli e darsi da fare per infrangere i modelli di comportamento che portano a commetterli. Ma la colpa era sterile.
"La vita è un processo" aveva detto Theresa. Era una delle mie co-madri, una tecnica sanitaria specializzata in psicologia. Per metà dell’anno lavorava su una nave mineraria d’alto mare, la Pacific Aurora, al largo di Pearl Harbor. Per l’altra metà dell’anno, contribuiva ad allevare i membri più giovani della famiglia. "Noi creiamo e ricreiamo noi stessi, rispondendo a cambiamenti sia esterni che interni. Ma la colpa è statica, così come lo sono le idee e le emozioni collegate: il peccato, per esempio, il rammarico, e forse la vergogna, sebbene non sia del tutto certa dell’effetto della vergogna. Ma gli altri ti ancorano al passato, ti trattengono, così che non puoi muoverti liberamente nel presente.
"Immagina la colpa come una fascia di ferro fissata attorno a qualcosa che sta crescendo: il tronco di un albero, il collo di un bambino. Prima o poi, delle due cose una dovrà succedere: se la fascia non si spezza, la cosa che cresce resterà deforme.
"Impegnati al cambiamento, Lixia, a vivere nel presente, a creare e ricreare quella che sei. Fa’ del tuo meglio. Comprendi ciò che fai. E non sentirti in colpa."
Un buon consiglio, dissi al ricordo di Theresa. Raccolsi i miei stivali e m’incamminai verso il nostro accampamento.