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Le prime persone in fuga mi superarono correndo, dirigendosi verso le buie colline. Arrancai in piedi, o meglio su un piede. Se non appoggiavo l’intero peso del mio corpo sulla caviglia che stava autoguarendo, potevo balzellare in avanti. Dopo pochi metri trovai una torcia lasciata cadere a terra. La spensi e mi ci sorressi come fosse un bastone. Non era proprio dell’altezza giusta, ma poteva andare.

Fu un lento avanzare, essendo io l’unica persona che si muoveva in direzione della prigione. La gente aveva smesso di spintonare e alcune anime gentili o colte dal senso di colpa avevano cominciato a trascinare via i morti su cui gli altri erano passati. Una folla di quelle dimensioni, tuttavia, necessita di parecchio tempo per disperdersi. Il rumore dei pianti e delle grida era sopraffacente, specialmente dopo che ebbi cominciato a farmi strada a fatica attraverso gli stretti passaggi che si formavano fra le persone. La caviglia mi pulsava.

Passò almeno un’ora prima che riuscissi a raggiungere la prigione.

Salterellai lungo tutto il perimetro delle mura e svoltai l’angolo in direzione del fiume. Per me risultava in qualche modo sconcertante che l’acqua continuasse a scorrere e brontolare, che le rocce si trovassero nella solita sciocca posizione. Per un istante non vidi quel fiume ma un altro, con un coniglio dalle zampe bianche morto lungo la riva. Quale fiume sentivo mormorare nell’oscurità? Da quella parte delle mura non era rimasto nessuno, ma mi sembrò di scorgere dei corpi morti a terra. In effetti si trattava di ombre. Anche dopo essermene resa conto, tuttavia, esse continuarono a sembrarmi cadaveri. Continuarono a sembrare Lizzie, tutte quante, in momenti diversi. Il dolore mi si stava diffondendo dalla caviglia all’intera gamba. Non ero completamente in me.

Quando raggiunsi le porte della prigione, sollevai lo sguardo verso gli scudi di sicurezza che sporgevano dalle pareti proprio come aveva fatto lo scudo argentato. Dissi loro: — Voglio entrare.

Non accadde nulla.

Dissi, più forte, e udii io stessa la sfumatura di isteria che avevo nella voce: — Adesso entro. Lo faccio. Adesso. Entro.

Il fiume brontolava. Gli scudi si illuminarono leggermente, o forse no. Un istante dopo la porta si spalancò.

Proprio come l’Eden.

Zoppicai in una piccola anticamera. La porta si chiuse di scatto alle mie spalle. Sulla parete opposta se ne aprì un’altra. Ero stata precedentemente in prigione, come parte del mio antico addestramento da investigatore. Sapevo come funzionavano. Dapprima c’erano le porte automatizzate gestite dal computer e i bio-detector, e tutte mi fecero passare. C’era quindi la seconda serie di porte, che non sono a energia-Y, ma porte a sbarre di una lega al carbonio apribili solo manualmente, perché esistevano sempre persone in grado di penetrare in un qualsiasi sistema elettronico, incluse le impronte di retina. È stato fatto. La seconda serie di porte è controllata da esseri umani posti dietro scudi a energia-Y e se non ci sono gli esseri umani nessuno può entrare. O uscire. Non senza cariche esplosive imponenti come quelle con cui avevano già tentato i tipi del Volontà e Ideale.

Mi trovai di fronte alla prima porta a sbarre e sbirciai attraverso la finestra oscurata che dava sulla guardiola, una finestra costruita in plastichiara e non con l’energia-Y, perché anche l’energia-Y è vulnerabile rispetto a molti strumenti elettronici sofisticati. C’era una sagoma lì dietro. In qualche modo quelli di Huevos Verdes dovevano essere riusciti a portare dentro delle persone loro. Quando? Come? E che cosa avevano fatto con gli agenti carcerari Muli?

La porta si aprì.

Quindi si aprì la successiva.

E quella dopo ancora.

Non c’era nessuno nel cortile della prigione. Le sale ricreazione e mensa si trovavano sulla destra, quelle riservate all’amministrazione e la palestra erano sulla sinistra. Avanzai a balzi verso i blocchi con le celle che si trovavano in fondo. Fra di essi si scorgeva un solitario pìccolo edificio. Isolato. Quando spinsi la porta, essa si aprì.

Mi ero quasi aspettata, raggiungendo la cella, di trovarla vuota, con una pietra rotolata via dalla porta tombale. Giochetti di icone culturali…

Ma i Super-Insonni non giocavano. Lei era lì, seduta su una brandina per dormire che non avrebbe mai utilizzato, in uno spazio di tre metri per un metro e mezzo, con un water privo di tavoletta e una sedia. Ammassati sulla sedia c’erano libri, stampe cartacee realmente rilegate. Sembravano antichi. Non c’era alcun terminale. Lei sollevò lo sguardo su di me, senza sorridere.

Cosa dire?

— Miranda? Sharifi?

Lei annuì, una sola volta, con la testa leggermente troppo grossa. Indossava la tuta della prigione, grigio opaco. Non aveva alcun fiocco rosso fra i capelli scuri.

— Loro… i tuoi… le porte sono aperte.

Lei annuì di nuovo. — Lo so.

— Sei… vuoi uscire? — Sembravo un’idiota perfino a me stessa. Non c’erano precedenti.

— Fra un minuto. Siediti, Diana.

— Vicki — ribattei io. Altre idiozie. — Adesso mi faccio chiamare Vicki.

— Già. — Continuò a non sorridere. Parlava in quel modo vagamente esitante che ricordavo, come se il linguaggio non fosse il suo mezzo di comunicazione naturale. O forse come se stesse scegliendo le parole con attenzione, non perché ne avesse troppo poche ma perché ne aveva un numero inconcepibilmente vasto. Spostai i libri dalla sedia e mi sedetti.

Lei disse l’ultima cosa che mi sarei mai aspettata: — Sei preoccupata.

— Sono…

— Non sei preoccupata?

— Sono stordita. — Lei annuì di nuovo, apparentemente non sorpresa. Dissi: — Tu no? Ma no, ovviamente tu no. Ti aspettavi che tutto ciò accadesse.

— Mi aspettavo che accadesse cosa? — disse lei con quella parlata lenta e, ovviamente, aveva ragione. Erano successe troppe cose. Potevo riferirmi a una qualsiasi di esse: i cambiamenti biologici rispetto a Prima, l’attacco da parte del movimento clandestino Volontà e Ideale, il salvataggio.

Quello che dissi, però, fu: — La disintegrazione del mio paese. — Udii la mia stessa debole enfasi sul termine "mio" e provai un immediato senso di vergogna: il mio paese, non il tuo. Quella donna mi aveva salvato la vita, aveva salvato tutte le nostre vite.

Ma non era una vergogna totale.

Miranda disse: — Temporaneamente.

— Temporaneamente? Ma non sai che cosa hai fatto?

Continuò a fissarmi, senza rispondere. Mi chiesi, improvvisamente, che effetto potesse fare incontrare quello sguardo giorno dopo giorno, sapendo che lei poteva immaginare di te qualsiasi cosa, mentre tu non potevi riuscire a capire nemmeno la più banale delle cose che lei stava pensando. Forse nemmeno se te lo avesse detto.

Tutto a un tratto, compresi Drew Arlen e perché aveva fatto ciò che aveva fatto.

Miranda disse: — Non è stato Huevos Verdes a estendere quello scudo.

La guardai a occhi sbarrati.

— Pensavi che l’avessero fatto loro. Noi a Huevos Verdes, però, avevamo stabilito di non difendervi contro il vostro stesso genere. Avevamo stabilito che sarebbe stato meglio, per voi, che trovaste da soli la vostra strada. Se fossimo noi a fare tutto, non sareste altro che… — Fu l’unica volta in cui ebbi la sensazione che le mancassero effettivamente le parole.

— E allora chi ha esteso lo scudo?

— Le autorità federali di Oak Mountain. Dietro ordine diretto del presidente che è caduto in basso ma non è sparito. — Sorrise quasi, mestamente. — I Muli hanno protetto i loro cittadini americani. È questo che vuoi sentir dire, vero, Vicki?

— Quello che voglio sentire? Ma è vero?

— È vero.

La fissai. Mi alzai, quindi, e mi allontanai a balzi dalla cella. Non le dissi nemmeno addio. Non sapevo dove sarei andata. Zoppicai tanto velocemente attraverso il cortile della prigione che rischiai quasi di cadere. Non dovetti attraversare l’intero cortile: c’era gente raggruppata lì che stava discutendo in un capannello. Si interruppero quando mi videro, mi fissarono attoniti e aspettarono. Due tecnici con le uniformi blu e un uomo e una donna che indossavano abiti eleganti. Alti, modificati geneticamente in quanto a bellezza. Teste di dimensioni normali. Muli.

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