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Miranda sussurrò: — Nessuno riesce mai a farmi sentire come sai fare tu, Drew. Nessuno.

Tenni gli occhi chiusi, facendo finta di dormire.

Nel tardo pomeriggio andammo nei laboratori. Sara Cerelli e Jonathan Markowitz erano già lì: indossavano pantaloncini corti ed erano a piedi nudi. Uno dei requisiti del progetto prevedeva che, in tutti gli stadi, nulla dovesse essere sterile.

— Salve, Drew — disse Jon. Sara fece un cenno col capo. La loro concentrazione sul lavoro creava forme chiuse e indistinte nella mia mente.

Un goccia di tessuto era appoggiata su un basso vassoio aperto posto su un banco del laboratorio, collegata a macchinari tramite sottili tubi e anche più sottili cavi. Dozzine di monitor circondavano le stanze. Nulla di ciò che vi veniva mostrato mi risultava comprensibile. Il tessuto sul vassoio aveva il colore della carne, un bruno grigiastro, ed era privo di una forma particolare. Sembrava potesse cambiare sagoma, filtrando in qualcosa d’altro. Durante la mia ultima visita, Miri mi aveva detto che non poteva farlo. Nessun Insonne è schizzinoso. Non lo sono neanche io, ma le forme che strisciavano dentro e fuori dalla mia mente mentre osservavo quella cosa erano pallide, chiazzate e puzzavano di umido, anche se risultavano nette come diamanti nei contorni. Come le mura di Huevos Verdes costruite tramite nanotecnologia.

Dissi stupidamente: — È vivo.

Jon sorrise. — Oh, certo. Ma non senziente. Quanto meno non… — La sua voce si affievolì e io mi resi conto che non riusciva a trovare le parole giuste perché tutti i termini che sceglieva sarebbero stati troppo semplici, troppo incompleti per le sue idee… e tuttavia ancora troppo difficili perché io potessi seguirlo. Miri mi aveva detto che Jon, ben più degli altri, eccetto Terry Mwakambe, pensava secondo concetti matematici. La stessa cosa valeva comunque per tutti loro, anche per Miri: la sua parlata era rallentata di un quarto di battuta. Mi ero trovato a parlare anch’io così soltanto un mese prima. Lo stavo facendo con il bis-nipote di Kevin Baker che aveva quattro anni.

Miri tentò di spiegare: — Il tessuto è un computer organico di macro-livello, Drew, con una limitata programmazione di simulazione di organi, inclusi i sistemi nervoso, cardiovascolare e gastrointestinale. Abbiamo aggiunto i loop di feedback auto-monitorizzanti di Strethers e assemblatori sub-molecolari auto-riproducentesi a braccio singolo. Può avvertire i processi biologici programmati e relazionare dettagliatamente su di essi. Ma non possiede né sensibilità né volontà.

— Oh — commentai io.

La cosa si mosse leggermente sul vassoio. Io distolsi lo sguardo. Miri, ovviamente, se ne accorse. Si accorge sempre di tutto.

Disse con espressione tranquilla: — Ci stiamo avvicinando. Ecco cosa significa. Da quando abbiamo fatto la scoperta della batteriorodopsina, ci stiamo avvicinando moltissimo.

Mi costrinsi a guardare nuovamente la cosa. Sottilissimi capillari pulsavano sotto la superficie. Le forme umide e pallide nella mia mente continuavano a strisciare come larve sulla roccia.

Miri disse: — Se versiamo una soluzione nutriente sul vassoio, Drew, può selezionare e assorbire ciò di cui ha bisogno e scinderlo per trarne energia.

— Che genere di soluzione nutriente? — Avevo imparato abbastanza durante la mia ultima visita da essere in grado di porre quella domanda.

Miri fece una smorfia. — Proteine e glucosio, nella maggior parte. C’è ancora parecchia strada da fare.

— Hai risolto il problema di trarre l’azoto direttamente dall’aria? — Avevo memorizzato questa domanda. Essa mi creò una forma cava e metallica nella mente. Miri però sorrise in modo raggiante.

— Sì e no. Abbiamo progettato il micro-organismo, ma la ricettività del tessuto sta ancora fallendo sul fattore Tollers-Hilbert, specialmente per quanto riguarda le fibrille epidermiche. Per quanto invece attiene al problema dell’endocitosi dell’azoto tramite ricettore… nessun progresso.

— Oh — dissi io.

— Lo risolveremo — disse Miri un quarto di battuta troppo lentamente. — È solo questione di progettare i giusti enzimi.

Sara disse: — Noi chiamiamo questa cosa Galwat. — Lei e Jon si misero a ridere.

Miri spiegò velocemente: — Da Galatea, sai. E da Erin Galway. Oltre a John Galt, il personaggio immaginario che voleva fermare il motore del mondo. Ovviamente, poi, dalle equazioni di trasferimento di Worthington…

— Ovviamente — commentai io. Non avevo mai sentito parlare né di Galatea, né di Erin Galway, né di John Galt, né di Worthington.

— Galatea viene da un mito greco. Uno scultore…

— Adesso andiamo a vedere le statistiche sulla mia rappresentazione — dissi. Sara e Jon si lanciarono un’occhiata. Io sorrisi e tesi una mano verso Miri. Lei l’afferrò con forza, e io la sentii tremare.

(Veloci forme frementi mi riempirono la mente, sottili come carta. Spesse soltanto una dozzina di molecole. Si appoggiarono su una roccia, ruvida, dura e vecchia quanto la Terra. Il fremito si fece sempre più veloce, la sottile carta chiara divenne rosso incandescente e la roccia si frantumò. Nel suo cuore c’era un biancore lattiginoso, che pulsava di vene indistinte.)

Miri chiese: — Non vuoi vedere l’ultimo lavoro di Nikos e Alien sul Depuratore Cellulare? Sta procedendo molto più velocemente di questo! Inoltre Christy e Toshio hanno fatto un passo avanti rivoluzionario sulla programmazione per il controllo degli errori nell’assemblatore di proteine…

— Adesso vediamo le statistiche sulla rappresentazione.

Lei annuì una, due, quattro volte. — Le statistiche sono buone, Drew. C’è però uno strano picco nei dati nel secondo movimento del tuo concerto. Terry dice che lì dovresti cambiare direzione. È piuttosto complicato.

— Allora me lo spiegherai — dissi io con espressione piatta.

Il suo sorriso era abbacinante. Ancora una volta Sara e Jon si lanciarono un’occhiata a vicenda e non dissero nulla.

La prima volta che Miri mi aveva mostrato come comunicavano i Super fra loro, non ero riuscito a crederci. Era accaduto tredici anni prima, subito dopo che erano scesi dal Rifugio. Lei mi aveva condotto in una stanza con ventisette olo-palchi posti su ventisette scrivanie da terminale. Ognuno di essi era stato programmato per "parlare" un linguaggio diverso, basato sull’inglese, ma modificato rispetto alle stringhe di pensiero del proprietario. Miri, sedici anni, mi aveva spiegato una delle sue stringhe di pensiero.

— Supponiamo che tu mi dica una frase. Una sìngola frase.

— Hai un bel seno.

Lei era arrossita, una chiazza marrone sulla pelle scura. Aveva effettivamente un bel seno e dei bei capelli. Essi compensavano un po’ la grossa testa, il mento bitorzoluto e il portamento goffo. Non era graziosa ed era troppo intelligente per non saperlo. Volevo farla sentire graziosa.

Aveva detto: — Scegli un’altra frase.

— No. Usa quella.

Lo aveva fatto. Aveva parlato al computer e l’olo-palco aveva cominciato a formare una forma tridimensionale di parole, immagini e simboli collegati insieme da scintillanti linee verdi.

— Vedi, mette in evidenza le associazioni che crea la mia mente, basandosi sull’archivio di stringhe di pensiero passate e su algoritmi che rappresentano il mio modo di pensare. Da sole poche parole, estrapola, prevede e rispecchia. Il programma è chiamato in effetti "specchio mentale". Cattura circa il novantasette per cento dei miei pensieri, circa il novantadue per cento delle volte e poi io posso aggiungere il resto. La parte migliore è…

— Tu pensi in questo modo per ogni frase? Ogni "singola frase"? — Alcune delle associazioni erano ovvie: "seno" collegato con nutrire un bambino, per esempio. Ma perché mai il bambino era poi collegato con qualcosa che si chiamava "Costante di Hubble" e perché nella stringa era compresa anche la Cappella Sistina? Oltre a un nome che non conoscevo: Chidiock Tichbourne?

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