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— Non lo voglio scongelato affatto. Lo spedirò così com’è, grazie — disse Quinn. — Temo che ottanta chili di tritoni non sarebbero molto appetitosi dopo quattro settimane di viaggio a temperatura ambiente.

L’impiegata storse il naso. — Non sarebbero appetitosi a nessuna temperatura.

— La loro possibilità d’essere graditi al palato cresce in ragione del quadrato della distanza dal luogo in cui abbondano. Questa è una legge valida per tutte le sostanze alimentari — sogghignò Quinn.

La porta del corridoio alle loro spalle si riaprì con un sibilo. Ethan e Terrence Cee si tolsero di mezzo quando entrò un carrello antigravità su cui c’era una mezza dozzina di contenitori sigillati, pilotato col telecomando da un sorvegliante ecologico in uniforme verde e azzurra.

— Oh-ho, il Bio-controllo ha la precedenza — disse l’impiegata del magazzino. — Mi scusi, signora.

Ethan accolse con un sorriso l’arrivo del giovanotto. Era Teki, probabilmente appena uscito da uno dei locali del Riciclaggio, dietro l’angolo del corridoio. Teki si accorse di Quinn e di Ethan appena ebbe fatto girare il carrello, e non parve molto entusiasta di vederli. Terrence Cee, che non lo conosceva, si limitò a guardare l’orologio, seccato da quel contrattempo.

— Ah, Teki — disse Quinn, voltandosi. — Più tardi sarei passata a salutarti. Stasera parto. Mi sembra che ti sia ripreso benissimo dalla piccola disavventura delle settimana scorsa.

Teki sbuffò. — Sì, essere rapito e drogato e seviziato da una banda di pazzoidi assassini è proprio quello che io chiamerei una piccola disavventura. Comunque sto bene, grazie.

Un angolo della bocca di Quinn si curvò. — Sara ti ha perdonato per quell’appuntamento mancato?

Teki scrollò le spalle, ma non poté reprimere un sorrisetto. — Be’, sì… quando si è convinta che non avevo una storia con te, alla fine, è diventata molto, uh, affettuosa. — Tornò serio. — Però lo sapevo, dannazione, che stavi lavorando per il piccoletto. Adesso puoi dirmi di cosa si tratta, Elli?

— Sicuro, appena la Sicurezza me ne darà il permesso. Al momento c’è sempre un’indagine in corso.

Teki mugolò. — Non è leale! Me l’avevi promesso!

Lei allargò le braccia in gesto d’impotenza. Il cugino sbuffò, si accigliò, ma alla fine rinunciò a metterle il muso. — Te ne vai, allora? Quando?

— Fra poche ore.

— Ah. — Teki si mostrò alquanto deluso. Guardò Ethan. — Buongiorno, signor ambasciatore. Sa, mi dispiace per quello che Helda ha fatto con la sua roba. Spero che lei non pensi che nel nostro dipartimento siamo tutti così. In questi giorni Helda è assente per malattia… dicono che ha l’esaurimento nervoso. Io fungo da direttore della Stazione B, per adesso — aggiunse con modestia ma orgogliosamente. E le mostrò un polsino della giacca, dove c’erano due bande azzurre invece di una come prima. — Almeno, finché Helda non tornerà.

A un’occhiata più da vicino Ethan vide che la seconda banda azzurra era in realtà un semplice nastro adesivo. — Non preoccuparti — gli disse. — Puoi anche ordinare una blusa da direttore effettivo. Mi è stato assicurato che l’assenza di Helda è di carattere permanente.

— Sul serio? — Teki s’illuminò in viso. — Senta, mi dia il tempo di sbattere fuori questa robaccia… — indicò il carico del carrello, — e sarò da voi. Ce li avete due minuti per venire a bere qualcosa alla Stazione B, no?

— Soltanto due minuti — lo avvertì Quinn. — Non posso stare di più, se voglio salire in orario a bordo della nave.

Teki le accennò che capiva perfettamente. — Venite con me? — li invitò, manovrando il carrello antigravità per aggirare il bancone. L’impiegata aprì la porta sigillata del magazzino e tolse di mezzo alcune scatole di plastica per lasciarli passare.

— Io aspetto la mia roba qui, se non vi spiace — disse Quinn, ma Ethan, curioso di guardare tutto, seguì il giovanotto nell’interno. Terrence Cee era rimasto in disparte coi suoi pensieri, malinconica e solitaria figura, ed Ethan si girò a sorridergli per incoraggiarlo a restare nel gruppo.

— Allora cos’è successo con Helda? — domandò Teki a Ethan. — È vero che ha spedito su Athos una quantità di materiale organico rubato, e addirittura dei pezzi di cadavere?

Ethan annuì. — Ancora non riesco a capire cosa sperasse di ottenere. Non credo che lo sappia neanche lei. Forse ha riempito quelle scatole con altre ovaie perché temeva che avrebbero dovuto passare qualche ispezione… voglio dire, dopo aver buttato via le nostre, come ha confessato, qualunque cosa all’incirca dello stesso peso sarebbe andata bene, visto che in effetti nessuno era autorizzato ad aprire i contenitori salvo il destinatario. In questo modo ci lascia con degli interrogativi in più, che aggiungono mistero a questa assurdità.

Teki scosse il capo, come se fosse ancora incapace di crederci.

— Cos’è questa roba? — domandò Ethan, indicando il carrello fluttuante.

— Generi alimentari contaminati. Oggi, dopo le analisi, abbiamo sequestrato e distrutto l’intero carico, ma questi campioni vanno in magazzino. In caso di procedimenti legali, contestazioni, o per qualsiasi eventualità.

Entrarono in un lungo locale bianco dove neppure il riscaldamento sembrava funzionare bene, con alcune apparecchiature robotizzate e un compartimento stagno. Quella era la superficie più esterna della stazione, comprese Ethan.

Teki batté qualche rapida istruzione su una tastiera, inserì un disco di dati, mise i contenitori in una cassa di plastica ad alta resistenza etichettata con dei colori-codice, e attaccò la cassa al braccio estensibile di un robot. L’apparecchiatura si alzò dal pavimento e fluttuò nel compartimento stagno, che si chiuse e iniziò il ciclo di decompressione.

Il giovanotto premette un pulsante sulla parete, facendo scivolare di lato un pannello dietro cui c’era una finestra panoramica simile a quelle più grandi della Passeggiata dei Viaggiatori. La vista spettacolare della galassia era in parte bloccata dalle sporgenze periferiche della stazione. Era l’equivalente del cortile posteriore di un caseggiato o di un’enorme fabbrica, si disse Ethan, con la differenza che in quella zona c’era un’illuminazione intensa. Teki seguì con attenzione il robot, che uscito dal portello fluttuava nel vuoto lungo una vastissima griglia metallica di gabbie allineate. Quasi tutte le gabbie più vicine erano piene di cassoni sigillati, ma c’era anche merce in semplici sacchi di plastica e altra chiusa entro blocchi di ghiaccio informi.

— Quando Dio ebbe bisogno di un frigorifero, creò l’universo — ridacchiò Teki. — Da queste parti noi l’abbiamo ridotto a una pattumiera, però. Un giorno o l’altro dovremo mandare fuori delle squadre a distruggere tutte le porcherie rimaste qui attorno fin dall’Anno Uno, ma non è che rischiamo di restare a corto di spazio. Tuttavia, se diventerò un dirigente del Riciclaggio, dovrò pensare a una soluzione… responsabilità… finirla con questi sprechi…

Le parole del sorvegliante ecologico sfumarono via dagli orecchi di Ethan mentre la sua attenzione si spostava su un gruppo di contenitori trasparenti che fluttuavano a poca distanza, sotto la griglia. Dentro ogni contenitore sembravano esserci delle scatole rettangolari d’aspetto familiare. Aveva già visto usare piccole scatole uguali quel mattino, nel laboratorio biologico che s’era occupato della donazione di Quinn. Quante erano? Difficile contarle, difficile capirlo. Più di venti, sicuramente. Più di trenta. Da lì poteva vedere bene soltanto gli scatoloni che le contenevano; ce n’erano nove.

— Buttato via — mormorò fra sé. — Buttato… fuori?

Il robot giunse all’estremità della grata, spinse il suo carico in una delle gabbie vuote e la chiuse. L’attenzione di Teki era ancora fissa sull’apparecchiatura al lavoro, e la seguì finché fece ritorno al compartimento stagno. Ethan indietreggiò accanto a Cee, lo prese per un braccio e in silenzio gli indicò gli oggetti che fluttuavano nello spazio. Dapprima il telepate annuì distrattamente, poi guardò meglio. S’irrigidì, sbattendo le palpebre, e corse davanti alla finestra. I suoi occhi sembravano divorare la distanza. Aveva la fronte imperlata di sudore e imprecava fra i denti, a voce così bassa che Ethan riusciva a udirlo a stento. Le sue mani si aprivano e si chiudevano; le appoggiò contro la superficie trasparente.

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