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Ethan scosse il capo.

— Be’, io ti ringrazio — disse Teki, toccandosi la fronte. La porta della camera degli sterilizzatori UV si richiuse sul suo sorriso.

— Arrivederci — mormorò Ethan. uscendo dell’altra parte. Si guardò attorno. Era in un corridoio della stazione, identico a migliaia d’altri. Si passò una mano sulla faccia, chiuse un attimo gli occhi per placare le sue sofferenze spirituali, poi fece un sospiro e s’incamminò in una direzione a caso.

Due ore dopo stava ancora camminando in una direzione a caso, con il dubbio frustrante d’essere già passato più volte negli stessi posti. Gli uffici della Sicurezza della Stazione, che sulla Passeggiata dei Viaggiatori erano frequenti quanto invisibili, nei settori abitati soltanto dai kliniani sembravano non esserci affatto; oppure da quelle parti usavano targhe meno universalmente comprensibili e lui li stava oltrepassando senza accorgersene. Quando un’altra vescica gli si formò sui piedi, irritati dalla gomma di quegli stivali, Ethan imprecò sottovoce e proseguì zoppicando.

Ciò che vide guardandosi attorno all’incrocio successivo gli risollevò il morale. Su quelle porte le targhe avevano di nuovo scritte in più lingue, solide serrature a combinazione e gli avvertimenti di "vietato l’ingresso" dedicati ai turisti. Si avviò da quella parte. Un altro incrocio, un altro portello stagno, e si trovò in una strada assai frequentata. Non distante da lì, accanto a una fontana, c’era una mappa stradale di quei settori.

— Dunque… tu sei qui — mormorò, seguendo l’olovideo con un dito. Luci colorate gli bagnarono il polpastrello. Il più vicino posto della Sicurezza era a cinquanta metri da lì. Ethan si girò a raffrontare la mappa con l’aspetto di quella strada. Il suo albergo si trovava al livello inferiore. L’albergo di Elli Quinn era due livelli più in alto, poco più lontano. Ansiosamente si domandò dove fosse quello in cui i due cetagandani l’avevano interrogato. Non molto distante, poteva starne certo. Pregò Dio il Padre di salvarlo dagli incontri indesiderati e s’avviò sul marciapiede, guardandosi attorno in cerca di uomini dalla faccia dipinta o femmine brune in uniforme grigia e bianca.

SICUREZZA — STAZIONE KLINE diceva l’insegna luminosa sopra il chiosco circolare dalle pareti di vetro, attraversato verticalmente da un pozzo antigravità. Ethan salì sulla terrazza soprelevata su cui sorgeva, entrò nel chiosco e si accorse che dall’interno si aveva una visuale completa della strada. Computer e consolle di comunicazione riempivano il piccolo locale. Un agente della Sicurezza sedeva coi piedi sulla scrivania davanti ai monitor, e mangiucchiava qualcosa da una confezione sorvegliando con sguardo pigro il traffico di auto a bolla e di pedoni.

Una femmina della Sicurezza, si corresse Ethan con un gemito interiore. Giovane, scura di capelli, con indosso quell’uniforme quasi-militare arancione e nera aveva una generica somiglianza con la comandante Quinn.

Ethan si schiarì la gola. — Ehm, uh… mi scusi, lei è di servizio?

L’agente femmina sorrise. — Ahimè, sì. Da quando mi infilo questa uniforme ed esco di casa per iniziare il mio turno, sono al servizio del pubblico. Quando smonto, però, e per sua informazione ciò accade alle 24.00, sono soltanto al servizio di me stessa — aggiunse in tono incoraggiante. — Conosco un posto dove fanno ottime polpettine di tritone. Le piacciono?

— Uh, no… grazie — rispose Ethan. Le restituì un sorriso nervoso, incerto. Quello di lei si fece abbagliante. Lui riesumò la domanda che s’era preparato. — Lei ha saputo qualcosa di un tizio che ha sparato con un distruttore neuronico, questa mattina, in una strada della Passeggiata dei Viaggiatori?

— Dio, sì. Ne stanno parlando anche giù ai Moli e Portelli?

— Be’… — Ethan ricordò di avere una tuta rossa; questo stava generando qualche altro malinteso imprevisto. — Senta, io non sono un cittadino di Stazione Kline.

— Questo l’avevo capito dal suo accento — annuì cordialmente lei. Mise giù i piedi dalla scrivania e vi poggiò un gomito, sostenendosi il mento con la mano. Lo guardò con espressione comprensiva. — È dura emigrare dal pianeta natale per andare a lavorare qua e là per la galassia, eh? Oppure lei è stato abbandonato qui da qualche nave?

— Uh… né l’una né l’altra cosa. — Visto che lei continuava a sorridere, Ethan fece altrettanto. Quel comportamento così gravido di contatto personale faceva parte del rituale di comunicazione fra i sessi? Né Quinn né la sorvegliante ecologica Helda avevano usato segnali facciali tanto intensi, ma Quinn aveva ammesso di essere atipica, e la sorvegliante ecologica sembrava non appartenere all’ambiente ecologico della razza umana.

La bocca stava cominciando a fargli male. — Senta, circa quella sparatoria…

— Ah. Lei ha parlato con qualcuno che ha assistito al fatto? — Un po’ dell’atteggiamento intimo della femmina si dissolse, e sedette in posizione meno rilassata. — Stiamo cercando dei testimoni.

Ethan decise d’essere prudente. — Ah… e perché?

— Per precisare l’imputazione nei confronti dello sparatore, l’uomo che abbiamo arrestato. Naturalmente costui afferma che è stato un incidente, un colpo partito per caso mentre mostrava l’arma a un suo amico. Ma l’informatore che ha telefonato per segnalarci il fatto ha dichiarato che costui stava prendendo di mira un uomo, il quale è fuggito illeso. L’informatore però non si è più sentito, e i cosiddetti testimoni oculari che si trovavano nelle vicinanze sono i soliti chiacchieroni: tutti con qualcosa di drammatico da raccontare, però quando si viene al sodo finiscono per ammettere che in quel momento stavano guardando da un’altra parte, o non erano ancora usciti da questo o quel locale, e insomma non ce n’è uno che sappia dire dove puntava quel dannato distruttore neuronico. — Fece un sospiro. — Ora, se dimostrassimo che l’individuo ha sparato a qualcuno, potremmo condannarlo e farlo deportare. Ma se è stato solo un incidente, tutto quello che possiamo fare è sequestrargli l’arma illegale, appioppargli una forte multa e lasciarlo andare. E questo dovremo farlo entro le prossime dodici ore, se l’accusa di tentato omicidio non potrà essere elevata nei suoi confronti.

Rau arrestato dalla Sicurezza? Il sorriso di Ethan si allargò. — E quel suo amico?

— Se venisse fuori qualcosa potrebbe essere accusato di complicità, ovviamente. Tuttavia non aveva armi addosso al momento del nostro intervento, cosicché a suo carico non c’è nulla.

Millisor dunque era a piede libero, se lui aveva interpretato bene le parole dell’agente femmina. Il sorriso di Ethan si spense. E così anche quel Setti, che lui non aveva mai visto e che non avrebbe potuto riconoscere neppure sbattendogli addosso. Si schiarì la gola.

— Io mi chiamo Urquhart.

— Io Lara — rispose l’agente della Sicurezza.

— Bel nome — disse automaticamente Ethan. — Però…

— Era il nome di mia nonna — gli confidò lei. — Io credo che restare legati ai nomi di famiglia dia il senso della continuità, non le sembra? A meno che uno non abbia la sfortuna di innamorarsi di una che ha una madre di nome Steirilla, com’è successo anni fa a un mio amico. Quando hanno avuto una bambina lui ha deciso di chiamarla Illa.

— Ecco… non era esattamente questo che stavo dicendo.

Lei inclinò la testa. — E cosa?

— Mi scusi, ma non capisco.

— Voglio dire: cos’è che stava dicendo, allora?

— Ehm…

— … quhart — finì lei. Agitò una mano. — Non è poi un brutto nome, Emquhart. Ne ho sentiti di peggio. Non credo che lei dovrebbe farsi venire un complesso. Oppure quand’era bambino la prendevano in giro per questo?

Lui restò a guardarla a bocca aperta, con la testa completamente vuota. Ma prima che il percorso della conversazione potesse diventare ancor più contorto, un’altra agente della Sicurezza, anch’essa femmina ma alquanto più anziana di lei, arrivò giù con l’ascensore antigravità che collegava il chiosco ai livelli superiori e inferiori. Emerse dal pozzo con andatura rapida e autoritaria.

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