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Ethan annuì ancora, sperando di apparirle ragionevole e comprensivo. Quella femmina robusta e dall’aria minacciosa era l’ultima persona della stazione di cui avrebbe desiderato la compagnia, a parte Millisor e Rau. Con una persona simile all’Ufficio Riciclaggio, c’era da temere che perfino gli esseri umani ammalati, scoperti a bordo di navi in transito, fossero resi innocui per i loro simili con sistemi altrettanto spicci.

— Allora, che state facendo voi dei Moli e Portelli? L’avete poi ripulita quella porcheria al Molo 13? — gli domandò d’un tratto Helda.

— Ah, be’… — Ethan si schiarì la gola.

Lei corrugò le sopracciglia. — Che ti succede? Hai il raffreddore?

Ethan non avrebbe osato ammettere che le sue mucose ospitavano un virus. — Ho un po’ di abbassamento di voce. Mal di gola — bofonchiò.

— Ah. — La femmina si appoggiò allo schienale con aria delusa. Poi. visto che ora il peso della conversazione ricadeva tutto sulle sue spalle, si guardò attorno in cerca di qualche argomento. — Bah. Quello sì che è uno spettacolo disgustoso — disse, indicando il marciapiede con un pollice. Ethan guardò fuori ma non vide niente, a parte un paio di kliniani di passaggio. — Viene da chiedersi con che coraggio i suoi la lascino uscire di casa.

— Chi? — balbettò Ethan, colto del tutto di sorpresa.

— Quella ragazza. La cicciona.

Lui si girò a guardare indietro. L’obesità della femmina in oggetto era così minima che lui l’avrebbe a stento diagnosticata tale, e non faceva che aggiungere qualche cuscinetto in più alle sue naturali sporgenze fisiche.

— Può darsi che sia un carattere genetico non modificabile nel solito modo — suggerì in tono mite.

— Ha. Questa è soltanto una patetica scusa per la mancanza di autodisciplina. Probabilmente quella svergognata si alza la notte per rimpinzarsi di costose leccornie importate dall’esterno. — Helda scosse il capo. — Ripugnanti porcherie straniere. Non si sa neanche dove le fabbrichino. Io, invece, mangio soltanto verdure prodotte dalle nostre buone vasche idroponiche, ed evito quelle carni ad alto contenuto proteico, troppo grasse, il cui impatto sul colesterolo è micidiale… — E proseguì in una verbosa dissertazione sui saggi metodi con cui teneva sotto controllo i suoi processi digestivi, finché l’auto a bolla giunse a destinazione e si fermò.

Ethan attese che Helda fosse uscita prima di sganciare la cintura di sicurezza. Poi scivolò giù dal sedile e cautamente mise fuori la testa.

L’aria del settore d’isolamento per le malattie infettive aveva un odore di laboratorio che lo riempì di nostalgia per il centro di riproduzione di Sevarin. Deglutì saliva; il pensiero d’essere così lontano da casa sua gli aveva fatto venire un groppo in gola.

— Da questa parte, egregio. — Un tecnico ecologico in tuta sterile gli accennò di precederlo. Altri due tecnici stavano già ripassando l’auto a bolla con gli sterilizzatori a raggi X. Dal parcheggio delle vetture Ethan fu indirizzato in fondo al corridoio, a una specie di spogliatoio, mentre il tecnico lo seguiva sterilizzando le invisibili impronte delle sue scarpe con un aspiratore sonico.

Mentre Ethan si spogliava, il tecnico lo obbligò a leggere una targa con le istruzioni per la doccia di decontaminazione, quindi infilò i suoi stivali e la rossa tuta da operaio in uno scomparto di vetro per il lavaggio sterilizzante, mugolando: — Niente biancheria intima? Che razza di gente!

Il documenti di Ethan e la sua carta di credito erano in una tasca della tuta, e nel vederla inondata da getti di liquido gli sfuggì un’imprecazione lamentosa. Ma ormai era inutile protestare. Si fece la doccia per i dieci minuti prescritti, si asciugò, sternuti più volte a causa del sapone disinfettante che gli aveva irritato le mucose, e infine uscì nello spogliatoio e attese, nudo come un verme, per quello che gli parve un tempo interminabile. Stava meditando sulla possibilità di spaccare a calci lo scomparto di lavaggio, che non voleva saperne di aprirsi per restituirgli le sue cose, e di andarsene insalutato ospite, quando il tecnico in tuta bianca fece ritorno.

Lo scomparto giunse al termine del suo ciclo e si aprì. Il tecnico mise la tuta rossa ancora umida e le scarpe su una panca, tirò fuori un hypospray e quando gli ebbe fatto l’iniezione nel braccio disse: — Puoi proseguire. Seconda a destra. Prima di andartene fermati alla Registrazione. È dall’altra parte. — Gli volse le spalle e sparì nel locale attiguo.

Ethan frugò nella tuta. Il suo portafoglio era ancora lì, asciutto e intatto. Sospirò di sollievo, si rivestì, raddrizzò le spalle per trovare il coraggio di fare una piena confessione a chi aveva ora l’incarico di registrarlo, e seguendo la poco decifrabile indicazione del tecnico uscì dalla parte opposta a quella a cui era entrato.

Stava pensando d’essersi perduto in qualche altro posto "vietato ai non addetti" quando vide una porta aperta, e un locale dove dietro un banco c’era un impiegato che si occupava di numerosi terminali e altre attrezzature interfacciale coi computer della stazione. In quel momento il giovanotto che era stato sul carrello dei volatili gialli, Teki, un po’ pallido e con un vistoso bendaggio di plastica bianca sulla fronte, lo raggiunse a passi svelti e arrivò alla porta insieme a lui. Sulla soglia si fermò con un sorrisetto esitante, e accennò a Ethan di entrare per primo. La corpulenta Helda era già lì, in piedi davanti al bancone, con le braccia conserte e l’aria impaziente.

L’accidiosa femmina gratificò Teki di uno sguardo freddo. — Era l’ora che ti staccassi da quel telefono. Credevo che tu avessi detto alla tua amichetta dai capelli ritinti di non chiamarti durante l’orario di lavoro.

— Non era Sara — rispose Teki, pazientemente. — Era una mia parente, e per questioni di lavoro. — Poi, per dirigere altrove l’attenzione di Helda, le indicò Ethan. — Ecco qua il nostro aiutante.

Ethan era rimasto indietro, ma visto che lo stavano guardando si avvicinò di malavoglia al bancone dell’impiegato. Si chiedeva da dove avrebbe dovuto cominciare, per rendere logica e accettabile la sua storia. Avrebbe voluto che Helda non fosse lì ad ascoltare.

— Uh, bene — disse l’impiegato in tuta verde e azzurra che si occupava delle registrazioni. — Mi fornisca la tessera assicurativa, prego. — E tese una mano verso Ethan.

Voleva un qualche genere di documento usato dai lavoratori della stazione, suppose lui. Trasse un profondo respiro, si fece coraggio, guardò la sorvegliante ecologica che lo scrutava accigliata, e lasciò perdere la confessione in favore di un: — Ehm, uh… in questo momento non ce l’ho qui…

L’espressione di Helda si fece ancor più disgustata. — Dovresti portarla sempre con te sul lavoro, tuta rossa. Come ti chiami?

— Ma ora sono fuori servizio — si difese Ethan disperatamente. — L’ho lasciata nell’altra tuta. — Se fosse riuscito a lasciarsi alle spalle quella terribile femmina, sarebbe andato dritto dalla Sicurezza della Stazione…

Helda agitò severamente un dito verso di lui.

Teki intervenne prima che potesse aprir bocca: — Avanti, Helda, lascialo respirare. Dopotutto è qui perché ha voluto aiutarci con quei dannati uccelli, no? — Detto questo prese Ethan sottobraccio, rivolse un cenno d’intesa all’impiegato, il quale passò ad occuparsi d’altro con una scrollata di spalle, e lo condusse alla porta. — Puoi andare a prendere la tua tessera assicurativa e portarla qui più tardi, con comodo.

— Questa è una procedura irregolare — fece notare Helda dal banco, rivolta all’impiegato. Ma lui scosse il capo e accennò a Ethan che poteva andarsene.

— Non far caso a Helda — disse Teki mentre si separava da lui davanti alla camera degli sterilizzatori UV, l’ultimo locale a chiusura stagna all’uscita del reparto d’isolamento. — Non è sempre stata così insopportabile. Prima che suo figlio se ne andasse dalla stazione per emigrare fra i mangiafango di un pianeta, era più sopportabile… anche se non per lui. evidentemente. Non ti ha neanche ringraziato per il tuo aiuto, scommetto, eh?

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