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Ethan andò nervosamente avanti e indietro; la sua voce si alzò. — Quanto tempo ancora dovrò restare segregato qui dentro?

Lei scrollò le spalle. — Finché non interviene qualche fatto nuovo, suppongo. — Ebbe un sorrisetto aspro. — E qualcosa accadrà, presumo, anche se non dalla nostra parte. Millisor e Rau e Setti hanno perlustrato di persona tutti settori della stazione che potevano raggiungere senza dare nell’occhio, ma continuano ad aggirarsi con molta insistenza soprattutto nei corridoi intorno al Riciclaggio. Dapprima non riuscivo a capire perché. Gli indumenti di Okita, che io avevo esaminato con uno scanner, risultavano privi di microspie. Ma non poteva essere questo. Comunque li ho spediti all’ammiraglio Naismith, per farli analizzare. Alla fine mi sono ricordata che vicino al Riciclaggio ci sono le vasche per la crescita delle sostanze proteiche. Credo che Okita avesse una microtrasmittente di qualche genere impiantata nel corpo; alcuni governi hanno questa procedura standard con chi passa attraverso le prigioni, per poter localizzare un individuo in ogni momento. Qualcuno rischierà di spaccarsi un dente sul suo petto di pollo, nei prossimi giorni. Spero che non sia un turista, altrimenti l’oggetto verrà consegnato al gestore del ristorante ed esaminato… con tanti saluti al nostro delitto perfetto. — Si alzò e aprì l’armadio. — Millisor non ha ancora tratto le deduzioni giuste, comunque; lui e gli altri due sono dei grandi divoratori di bistecche.

Ethan cominciava ad averne fin sopra i capelli della verdura e dei sandwich al formaggio vegetale. E di quella stanza, e della tensione, dell’indecisione e del senso d’impotenza. E soprattutto della comandante Quinn, e della sfacciataggine con cui gli dava ordini, come se lui fosse un povero sciocco incapace di agire…

— Io ho soltanto la sua parola sul fatto che le autorità della stazione non possono aiutarmi — sbottò all’improvviso. — Non sono stato io a sparare a Okita. Non ho fatto niente, io! Lo stesso Millisor non ha niente di personale contro di me… è lei che ha una sua guerra privata contro quella gente. Millisor non avrebbe mai pensato che io sono un agente di qualcuno, se Rau non avesse trovato la microspia che lei aveva messo in quel proiettore. È stata lei a trascinarmi in questa situazione sempre più profondamente, per usarmi nei suoi giochi di spionaggio.

— Guarda che Millisor ti sarebbe piombato addosso in ogni caso — gli fece notare Quinn.

— Sì, ma mi sarebbe bastato convincerlo che Athos non ha il materiale che lui sta cercando. Un semplice interrogatorio col penta rapido gli sarebbe bastato, se lei non si fosse intromessa destando i suoi sospetti. All’inferno, sarei disposto ad andare da lui per invitarlo a perquisire i nostri centri di riproduzione se è questo che vuole, e così si persuaderebbe che Athos non ha niente a che fare con le manovre dei suoi avversari e ci lascerebbe in pace.

Lei inarcò un sopracciglio, vezzo che Ethan trovava sempre più irritante. — Credi davvero che potresti arrivare a un accordo con lui? Personalmente, preferirei far visitare casa mia da un branco di cani affamati.

— Se non altro lui è un uomo — sbottò Ethan.

Lei scoppiò a ridere. I sentimenti accesi di Ethan arrivarono al punto di ebollizione. — Per quanto tempo pretende di tenermi isolato qui dentro, si può sapere? — le domandò ancora.

La mercenaria lo fissò per qualche istante. Il suo sorriso si dileguò. Strinse le palpebre. — La porta di questa stanza non è chiusa a chiave — gli disse con voce calma. — Puoi andartene quando vuoi. A tuo rischio, naturalmente. Se farai una brutta fine mi dispiacerà, tuttavia io potrò cavarmela anche senza di te.

Lui rallentò il suo frenetico andirivieni. — Lei sta bluffando. Non ha nessuna intenzione di lasciarmi andare. Ormai io so troppe cose.

Quinn rimise nell’armadio la camicia che stava tirando fuori e si passò una mano sulla mandibola. Nello sguardo con cui lo esaminò non c’era alcuna espressione, come se stesse calcolando a occhio il suo peso e le conseguenze che ci sarebbero state immettendo una biomassa extra nei sistemi di riciclaggio della stazione. Quando parlò, la sua voce era fredda e ostile come quella di F. Helda. — Io direi invece che tu non sai niente, egregio. Neppure di te stesso.

— Lei non vuole che io parli di Okita alle autorità della stazione, è così? Questo metterebbe a repentaglio il suo prezioso collo, anche se ad accusarla di omicidio sarebbe la sua stessa gente…

— Non credo che il mio collo sia in pericolo. Ovviamente la polizia non potrà ignorare ciò che ho fatto con quel cadavere… sempre che tu possa dimostrargli che sono stata io a uccidere Okita e che tu esca senza conseguenze da un processo per omicidio, cosa che dubito, dal momento che ci sono testimoni pronti a giurare che sei stato mio complice nell’eliminazione del cadavere.

— E allora? Cosa potrebbero fare, scacciarmi da Stazione Kline? Questa non sarebbe una punizione, sarebbe un premio!

Nelle pupille di lei, fra le palpebre strette, ci fu una luce sprezzante. — Se uscirai da questa stanza, athosiano, non aspettarti di avere da me altro aiuto e comprensione. Io non ho tempo per i chiacchieroni che non hanno il fegato di fare le cose fino in fondo.

Ethan capì che per lei questo era un insulto rovente. Decise di prenderlo come tale. — E io non ho tempo da perdere con una presuntuosa, intrigante, insopportabile… femmina! — esclamò.

Lei gli mostrò la porta con un gesto di sfida, stringendo le labbra. Ethan capì di aver avuto lui l’ultima parola. Aveva in tasca la sua carta di credito, le scarpe ai piedi, i vestiti addosso. Con una smorfia irosa raggiunse la porta, a testa alta. Nella schiena gli corse un brivido d’attesa per il raggio di uno storditore o qualcosa di peggio. Non ci fu niente.

C’era un gran silenzio nei corridoi, dopo che la porta si fu chiusa alle sue spalle con un sussurro d’aria compressa. Avere l’ultima parola, si chiese, era proprio ciò che voleva? E tuttavia… sì, preferiva affrontare Millisor, Rau, e lo spettro di Okita insieme a loro piuttosto che tornare a testa bassa nella sua prigione e chiedere scusa a Quinn.

Determinazione. Decisione. Azione. Questo era l’unico modo per risolvere i problemi. Non voltar loro le spalle e nascondersi. La cosa giusta era uscire da lì e affrontare Millisor faccia a faccia. A passi lunghi si avviò verso le scale.

Quando attraversò l’atrio del piccolo albergo e uscì in strada, dopo un cenno di saluto all’impiegata al banco, stava camminando con andatura normale ed aveva già revisionato la sua precedente linea di condotta a favore di una più prudenziale: avrebbe chiamato Millisor da un video telefono pubblico, per sondare la possibilità di un accordo e studiare le sue intenzioni prima di esporsi personalmente. Gli sarebbe convenuto essere astuto. Ad esempio, non era necessario tornare al suo albergo. Poteva benissimo abbandonare il suo piccolo bagaglio, acquistare un biglietto su una nave in partenza — per Colonia Beta? — ma solo all’ultimo momento, in modo da salire a bordo senza preavviso, e così si sarebbe lasciato alle spalle quella pericolosa banda di agenti segreti e di assassini. Prima che lui facesse ritorno a Stazione Kline, da lì a qualche mese, loro sarebbero andati a darsi la caccia a vicenda all’altro capo della galassia.

Scese di un paio di livelli rispetto all’albergo di Quinn ed entrò in una cabina di comunicazione pubblica. La sua carta di credito fu accettata senza difficoltà.

Pronunci il numero a voce, prego, lo invitò la scritta olografica in lettere verdi che apparve a schermo.

— Vorrei mettermi in contatto con un turista, attualmente ospite di un albergo: il Ghem-colonnello Luyst Millisor — disse al computer. Ripeté il nome lettera per lettera. La sua voce, notò soddisfatto, non tremava minimamente.

La persona da lei richiesta non è nel registro delle presenze di Stazione Kline fu la risposta olografica, in lettere rosse.

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