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Cirocco guardò il torrentello che scorreva accanto al loro accampamento, la terza sera, poi decise che era troppo stanca per fare un bagno. Voleva solo mangiare. Gene, brontolando, fece cuocere un po’ di carne.

Il quarto giorno percorsero venti chilometri in dieci ore, e alla sera Gene cercò di fare l’amore con Cirocco.

Avevano sistemato l’accampamento vicino al punto in cui il torrentello che stavano risalendo si allargava a formare una polla grande a sufficienza per fare un bagno e Cirocco si era spogliata e ci si era immersa prima ancora di pensare a quello che stava facendo. Sarebbe stato utile un po’ di sapone, ma sul fondo c’era molta sabbia e lei si sfregò vigorosamente con quella. Ben presto anche Gene e Gaby la raggiunsero. Poi Gaby uscì dall’acqua per andare a cercare frutta su invito di Cirocco; poiché non avevano accappatoi, lei si sdraiò tutta nuda davanti al fuoco, quando Gene la circondò con le braccia.

— Stai fermo — ordinò lei, balzando via e coprendosi i seni con le mani.

Gene non parve minimamente impressionato.

— Dài, Rocky, non sarebbe la prima volta per te.

— E allora? Non mi piace la gente che mi salta addosso. Tieni le mani al loro posto.

Lui aveva l’aria esasperata. — E secondo te cosa dovrei fare, restarmene calmo se ho sempre attorno due donne nude?

Cirocco prese i vestiti.

— Non sapevo che le donne nude ti facessero questo effetto. Lo terrò presente.

— Va bene, va bene. Non arrabbiarti.

— No, non sono arrabbiata. Dovremo vivere a contatto di gomito per un bel po’ di tempo e non servirebbe a nessuno stare arrabbiati. — Si strinse addosso il vestito e lo guardò con circospezione per un attimo; poi si mise a ravvivare il fuoco mentre si sedeva con estrema attenzione di fronte a lui.

— Comunque sei arrabbiata, e io non volevo che lo fossi.

— Non saltarmi addosso, questo è tutto.

— Ti manderei delle rose e dei cioccolattini, ma qui è un po’ difficile.

Lei sorrise, si rilassò un poco. Dagli occhi di Gene sembrava scomparsa l’ombra buia che aveva visto prima.

— Senti, Gene, non è che noi due facessimo faville nemmeno sull’astronave, e lo sai. Adesso sono stanca, ho fame, e mi sento ancora sporca. Se mi verrà voglia, te lo farò sapere.

— Okay, mi basta.

Nessuno dei due aggiunse qualcosa mentre Cirocco faceva divampare il fuoco cercando nel contempo di mantenerlo entro i contini della cavità che avevano scavato nel terreno.

— Non sarà… — chiese poi Gene. — … non sarà che c’è qualcosa tra Gaby e te?

Lei arrossì, sperando che lui non se ne accorgesse. — Non sono affari tuoi.

— Ho sempre pensato che fosse un’omosessuale — disse Gene, annuendo. — Ma non credevo che lo fossi anche tu.

Lei trasse un profondo respiro e lo guardò con circospezione. Le ombre che ondeggiavano sul suo viso barbuto non le rivelarono granché.

— Vuoi provocarmi? Ti ho già detto che non sono affari tuoi.

— Se non sentissi nulla per lei, mi avresti detto di no, e basta.

Qual era il suo problema con lei? Perché quello che lui le aveva detto le faceva venire la pelle d’oca? Gene era un tipo privo di tatto, abbastanza bigotto, ma capace di condurre una normale vita di relazioni sociali, se no non l’avrebbero scelto per il viaggio verso Saturno. Una personalità alquanto comune, tutt’altro che eccentrica, stando al suo profilo psicologico.

Allora, perché la metteva a disagio appena la guardava?

— Faresti meglio a stare attento a non fare del male a Gaby — gli disse. — Si è innamorata di me perché sono la prima persona che ha incontrato qui a Gea, ma è solo una fissazione. Le passerà. Non è mai stata un’omosessuale. Nemmeno uno eterosessuale, a dire il vero.

— Faceva finta — disse lui.

— Ma in che mondo vivi? Mi stupisci, Gene. Alla NASA non si può nascondere niente. Ha avuto una relazione omosessuale, sì. Ne ho avuto una anch’io, e anche tu. Ho letto il tuo dossier. Vuoi dirmi che età avevi quando è successo?

— Ero un ragazzo. Il fatto… Il fatto è che con Gaby si capiva già da prima, ecco.

— La conversazione è finita — disse bruscamente Cirocco. — Non mi va di parlare di queste cose, e poi Gaby sta tornando.

Gaby si avvicinò, lasciò cadere ai piedi di Cirocco una rete piena di frutta. Li guardò tutti e due, poi si rivestì. — Sbaglio, o mi fischiano le orecchie?

Nessuno dei due le rispose. Gaby sospirò.

— Ci risiamo. Credo che abbiano ragione quei signori che dicono che le missioni nello spazio costano più di quello che valgono.

Al quinto giorno si ritrovarono nella zona notturna. C’era solo un filo di luce spettrale riflesso dalle zone di giorno che s’incurvavano attorno a loro. Non era molto, ma bastava.

Il terreno era molto più ripido, e lo strato di terra più sottile. Spesso camminavano su trefoli nudi, che permettevano una presa migliore. Si legarono e seguirono scrupolosamente le direttive di farsi rispettivamente sicurezza quando arrampicavano.

Anche lì la vita vegetale di Gea non si era arresa. Alberi imponenti affondavano le radici direttamente nel cavo, estrudendo viticci che correvano lungo tutta la superficie e s’aggrappavano con tenacia. Lo sforzo di sopravvivere li aveva privati di ogni bellezza. Erano brutti e tozzi, con tronchi traslucidi illuminati da una pallida luce interna. In certi punti ci si poteva aggrappare alle loro radici.

Alla fine del quinto giorno avevano percorso un totale di settanta chilometri. Erano a una cinquantina di chilometri dalla loro meta. Gli alberi si erano talmente diradati che, guardando giù, si accorsero di aver già oltrepassato il livello della volta. Adesso si trovavano nello spazio compreso tra il cavo e l’imboccatura a tromba del raggio di Rea. Sotto, in fondo, si vedeva brillare Iperione.

All’inizio del sesto giorno scorsero il luccichio del castello di vetro. Cirocco e Gaby, acquattate fra le radici degli alberi, lo intravidero, mentre Gene avanzava con la fune sopra di loro.

— Forse ci siamo — disse Cirocco.

— Vuoi dire che sarebbe il tuo ascensore? — sbuffò Gaby. — Ah, guarda, io non mi fido proprio.

Sembrava un po’ una città italiana di collina, però costruita con zucchero filato vecchio un milione d’anni e mezzo sciolto. Cupole e balconate, archi, pilastri, merli e tetti appoggiati su una sporgenza colavano, giù, come uno sciroppo solidificato. Le torri, alte e agili, avevano le angolature più assurde: sembravano matite in un contenitore. E tutto era bianco.

— È un cimitero, Rocky.

— Lo vedo. Ma potrò fantasticare, no?

Il castello combatteva una battaglia silenziosa contro innumerevoli ciuffi di rampicanti bianchi. Aveva subito danni mortali, ma quando Gaby e Cirocco raggiunsero Gene si accorsero che sotto le mura i rampicanti erano secchi, morti.

— Sembra quasi muschio — osservò Gaby mentre ne raccoglieva una manciata.

— Solo che è più grande.

Gaby si strinse nelle spalle. — Se Gea non può costruirlo in una forma più economica, è perché probabilmente non se ne preoccupa.

— Lì c’è una porta — disse Gene. — Volete entrare?

— Puoi scommeterci.

Tra l’orlo della sporgenza e le mura del castello c’erano cinque metri di terreno piano. Vicino a loro sorgeva un arco rotondo, non molto più alto della testa di Cirocco.

— Ehi! — sospirò Gaby, appoggiandosi alle mura. — Mi gira la testa. Non ricordavo più come si cammina sul terreno piano.

Cirocco accese una lampada e seguì Gene oltre l’arco. Si trovarono in un atrio tutto specchi.

— Sarà meglio non disperderci.

Una certa prudenza sembrava consigliabile. Nessuna delle superfici era del tutto riflettente, però nell’insieme quel posto ricordava un labirinto di specchi. Attraverso le pareti si vedeva una infinità di altre stanze, oltre le quali sorgevano altre stanze ancora, dello stesso materiale.

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