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— Non è stata colpa tua — rispose lei. Aveva le mani gelate ora che il pericolo di uno scontro diretto con Gene era passato. — Ora ti chiedo: credi a me o a Gene?

— Ammettilo, Rah-kii, sembrava che tu avessi qualcosa da nascondere.

Cirocco si mordicchiò le nocche mentre pensava come rispondere. Il titanide era sicuro che stava mentendo. — Hai ragione — cantò lei dopo un po’, sperando che l’altro non avesse capito troppo. — Noi possediamo una forza violenta che potrebbe distruggere questa città per intero. Conosciamo segreti di distruzione di cui mi vergogno, cose che potrebbero togliere per sempre l’aria dal vostro mondo disperdendola nel freddo dello spazio.

— Queste cose non ci servono — cantò Maestrocantore. — Basterà la polvere.

— Non posso dartela. Non l’abbiamo portata con noi.

Il titanide meditò a lungo prima di rispondere.

— E il tuo amico Gene pensava che fosse possibile fabbricarla. Noi sappiamo usare molto bene la legna, e conosciamo la chimica delle cose viventi.

Cirocco sospirò. — Probabilmente hai ragione. Ma non posso svelarvi i nostri segreti.

Maestrocantore l’osservava in silenzio.

— Non è per i miei sentimenti personali — spiegò Cirocco. — Coloro che sono sopra di me, i saggi della mia gente, hanno deciso che sia così.

— Se lo comandano i tuoi saggi, non puoi decidere altrimenti. — Maestrocantore rifletté. — Il tuo amico Gene non possiede altrettanto rispetto degli anziani. Se glielo chiedessi di nuovo, potrebbe svelarmi i segreti della vittoria.

Il cuore le balzò in petto, ma cercò di non darlo a vedere.

— Gene ha dimenticato molte cose, che io gli ho ricordato. Il suo viaggio è stato difficile. I suoi pensieri si erano come dispersi, ma ho provveduto a ricordargli i suoi doveri.

— Capisco. — Il titanide restò di nuovo a riflettere, poi le offrì un bicchiere di vino, che lei accettò volentieri. — Non credo che sarebbe molto difficile costruire un lanciafrecce. Un bastone flessibile con le estremità congiunte da una striscia di pelle.

— Sono sorpresa che non lo conosciate già. Avete macchine molto più complesse.

— Abbiamo qualcosa di simile che i ragazzi usano per giocare.

— Ad ogni modo, non capisco perché combattete contro gli angeli. Qual è il motivo della vostra guerra?

Maestrocantore fece un smorfia. — Sono angeli.

— E non esiste nessun altro motivo? Ma voi non mi sembrate razzisti. Non provate nessuna avversione per me e i miei amici, o per gli aerostati, o per gli yeti di Oceano.

— Loro sono angeli — ripeté il titanide.

— Non volete vivere sulla stessa terra?

— Gli angeli non potrebbero far succhiare i seni di Gea ai loro piccoli, se lasciassero le alte torri che occupano. E noi non potremmo vivere attaccati alle pareti di Gea.

— Ma allora non combattete per alcun motivo concreto. Si tratta di una lotta religiosa? Adorano un altro Dio?

Maestrocantore rise. — Adorare? Che termine strano. Esiste una sola Dea, anche per gli angeli. Gea è nota a tutte le razze che la abitano.

— Non capisco proprio. Perché combattete?

Il titanide rifletté a lungo. Quando le rispose, la sua voce aveva un tono triste.

— Fra tutte le cose della nostra vita, questo è proprio quello che vorrei chiedere a Gea. Tutto capisco: che si debba morire e tornare a essere fango: a questo non ho nulla da obiettare, né amarezze; che il mondo sia un cerchio e che i venti soffino quando Gea respira; che si debba soffrire la fame, o che il grande Ofione si inaridisca, o che il vento gelido dell’ovest ci congeli. Queste sono cose che accetto, perché non credo che io saprei fare di meglio. Gea deve badare a molte terre, e di tanto in tanto il suo sguardo si sposta altrove. Non mi lamento quando i grandi pilastri del cielo crollano, e il mondo trema come se dovesse frantumarsi. Ma quando Gea respira e l’odio cala su di me, io non ragiono più. Ho guidato il mio popolo in battaglia senza accorgermi che la mia figlia anteriore cadeva al mio fianco. Per me era un’estranea, perché il cielo era pieno di angeli e si doveva combattere. È solo più tardi, quando l’ira ci abbandona, che contiamo i morti. E stato allora che ho scoperto che la figlia della mia carne era stata ferita dagli angeli, ma uccisa dai piedi della mia gente. Questo è successo cinque respiri fa. Il mio cuore si è ammalato, e temo che non guarirà mai più.

Cirocco, senza mormorare una parola, restò a guardare Maestrocantore che si allontanava, singhiozzando. Forse non erano singhiozzi umani, ma la differenza non era poi troppo grande. Dopo un po’ il titanide tornò a sedersi davanti a lei, stanchissimo.

— Combattiamo quando ci prende la furia. E non smettiamo fino a quando gli angeli non sono tutti morti o tornati alle loro dimore.

— Hai parlato del respiro di Gea. Non lo conosco.

— Ne hai udito il gemito. Scende dalle torri celesti. È freddo da ovest e caldo da sud.

— Non avete mai provato a parlare con gli angeli? Non ascoltano il vostro canto?

— E chi potrebbe cantare con gli angeli? E quale angelo ascolterebbe?

— Forse perché nessuno ha mai provato. Se riusciste a sedere assieme e fare ascoltare a loro i vostri canti, forse verrebbe la pace. — Fra i titanidi, "pace" era un vocabolo banale, indegno di ogni commento; ma non esisteva un sinonimo riferito anche agli angeli.

— La mia gente non ha nemici di altre specie — disse Cirocco. — Noi combattiamo fra di noi. Comunque abbiamo trovato molti sistemi per risolvere questi conflitti.

— Per noi non è un problema. Noi siamo in grado di controllare l’ostilità in seno alla nostra specie.

— Forse in questo campo potreste insegnarci qualcosa. Da parte mia, vorrei trasmettervi un poco della nostra saggezza. A volte le due parti sono talmente ostili che non riescono a parlare fra loro. In questo caso, usiamo una terza parte neutrale.

Lui inarcò un sopracciglio, poi li abbassò entrambi con aria sospettosa. — Ma se questo funziona, come mai avete bisogno di così tante armi?

Lei fu costretta a sorridere. Non era possibile che qualcosa sfuggisse ai titanidi.

— Perché non sempre funziona. A volte i nostri guerrieri cercano di distruggersi l’uno con l’altro. Ma le nostre armi sono diventate talmente potenti che da molto tempo nessuno di noi le usa più. Abbiamo imparato l’arte della pace. Ormai sono circa… sessanta miriariv che possediamo armi in grado di distruggere il nostro mondo, ma non lo abbiamo ancora fatto.

— È solo un battito della pupilla di Gea — cantò il titanide.

— Non sto parlando a vanvera. È terribile vivere con la consapevolezza che non solo… la tua madre anteriore ma anche i tuoi amici e i vicini potranno essere distrutti, e anche tutto il resto potrebbe scomparire per sempre.

Maestrocantore annuì, serio.

— Sta a te decidere. La mia gente può offrirti altre guerre, oppure una possibilità di pace.

— Capisco — cantò lui, preoccupato. — È una decisione grave.

Le ombre si addensavano nella stanza. Cirocco sapeva che nella testa del titanide si agitavano ancora le promesse di Gene.

— E dove potrei trovare una parte neutrale che tratti fra noi due? Io credo che subirebbe i colpi di entrambi.

— Ti offro i miei servigi come rappresentante legale delle Nazioni Unite — rispose Cirocco, allargando le braccia.

Il titanide la scrutò. — Non vorrei essere offensivo, ma non ho mai udito questo nome. Perché dovrebbero interessarsi alla nostra guerra?

— Alle Nazioni Unite interessano tutte le guerre. Ed è praticamente impossibile che ottenga risultati perfetti, come per tutti noi, del resto.

— Cosa vorresti fare per noi?

— Voglio arrivare a Gea, quindi devo attraversare comunque il territorio degli angeli. E odio la guerra.

Maestrocantore parve, per la prima volta, impessionato. Era chiaro che il concetto che aveva di Cirocco doveva essere cresciuto parecchio.

— Non hai mai confessato di essere una pellegrina. Questo getta una luce nuova sulle cose. Forse sei pazza, ma è una follia sacra. — Protendendosi in avanti, prese la sua testa fra le mani, le baciò la fronte. Era il gesto più rituale che Cirocco avesse mai visto compiere da un titanide, e ne fu commossa.

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