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Vadim sedeva, con i gomiti appoggiati sul tavolo e tenendosi la testa con le mani. Ma che civiltà! Va bene, pensava, mettiamo pure che siano stati vittime dei banditi. Ma questa è una sciocchezza: dei ragazzi di sedici anni in buona salute si fanno spogliare senza opporre resistenza e, buoni buoni, muoiono congelati. Ma non sono certo dei fanatici! Si immaginò un fanatico. Era un vecchio calvo e macilento, con gli occhi da pazzo, e un’enorme catena arrugginita al collo. No, pensava. Ma che fanatici! Forse sono loro stessi dei Nomadi dello Spazio? Sì. Con dei sacchi di juta. Gli vennero in mente le costruzioni ciclopiche, lasciate dai Nomadi sul pianeta Vladislav, e fu colto da malumore, come gli accadeva sempre, quando si trovava alle prese con un problema per lui insolubile.

— Anton, — disse. — A che punto è il bioplano?

Anton guardò l’orologio.

— È ora, — disse. — Andiamo. Vestitevi e prendete uno zaino per uno.

— Vorrei una precisazione —, intervenne Saul. — Cosa dobbiamo cercare?

A Vadim parve che Anton tentennasse.

— Cercheremo altri infortunati.

Saul si abbottonò la tuta.

— E se, per fortuna, qui non c’è più nessun infortunato? Mi riferisco all’ipotesi dei rapinatori.

— Se ci trovassimo di fronte a questa ipotesi, non staremo certo a far cerimonie, — borbottò Vadim.

— In qualsiasi altro caso, — disse Anton chiaramente, — vi prego di non fare un movimento senza mio ordine.

Andò verso la porta.

— Non prendete un’arma? — chiese Saul.

— Non abbiamo bisogno di armi, — rispose Anton.

— Basta con i cadaveri qui, — disse Vadim.

Uscirono dall’astronave e subito sprofondarono nella neve alta. Il bioplano si vedeva appena, dietro la cortina bianca. Era un bioplano antigravitazionale Grillo, un’affidabile macchina a sei posti, molto popolare fra le truppe da sbarco e gli astronauti in esplorazione. Stava sul bordo di un’enorme fossa disgelata, da cui si innalzava un vapore denso, i suoi fianchi lisci erano ancora tiepidi e nella cabina faceva addirittura caldo.

Buttarono gli zaini nel bagagliaio e sedettero nella macchina sotto una cupola liscia e trasparente.

— Accidenti! — disse Anton all’improvviso. — Dimka, scusami, per favore. Probabilmente ti serve l’analizzatore per la traduzione.

— Per quale traduzione? — chiese Saul. Vadim si strofinò il mento.

— Dell’analizzatore posso anche fare a meno, — disse lentamente, — ma senza i mnemocristalli all’inizio non me la posso cavare. Bisogna che qualcuno faccia un salto all’astronave.

— Quanti te ne occorrono? — disse Anton, e intanto scendeva dal bioplano.

— Una coppia sarà sufficiente. Solo, prendila con le ventose, per non doverla tenere in mano.

Anton corse sulla neve fino all’astronave.

— Di che cosa stavate parlando? — si informò Saul.

— Ci sarà bisogno di entrare in contatto in qualche modo con la gente, sempre che riusciamo a trovarla, — rispose Vadim.

— E — Saul mosse leggermente le dita — ne parla come di una cosa da nulla?

Vadim lo guardò con aria meravigliata.

— E come ne dovrei parlare?

— Beh sì, certo, — disse Saul.

«Che strano tipo, — pensava Vadirn. — Possibile che tutta la vita se ne sia stato seduto nel suo studio ad ascoltare Mendelssohn?»

— Saul, — disse, — dopo i lavori di Sugimoto, entrare in rapporto con altri umanoidi è un problema puramente tecnico. Non si ricorda come Sugimoto riuscì a comunicare con gli abitanti di Tagora? Quella è stata una grande vittoria, se ne parlò e se ne scrisse molto…

— Ma certo! — disse con entusiasmo Saul. — Come si potrebbe dimenticarlo! Ma io pensavo, chissà perché, che… ne fosse capace solo Sugimoto.

— No, — disse Vadim con noncuranza. — Può farlo qualsiasi linguista strutturale.

Anton tornò, porse a Vadim la scatola con i cristalli e si sistemò al suo posto.

— Avanti, — disse e guardò Saul. — Che cosa è successo?

— Che cosa poteva succedere?

— Mi sembrava… Beh, non ha importanza. Avanti.

— Senti, — disse Vadim, guardando una collinetta di neve che si notava appena oltre la navicella. — Non è bello lasciarli così. Non sarà meglio seppellire prima quei ragazzi?

— No, — disse Anton. — A rigore, non ne abbiamo nemmeno il diritto.

Vadim capì. Non sono morti terrestri e non tocca a noi seppellirli secondo le nostre leggi. Afferrò il manubrio e accese il motore. Il bioplano decollò dolcemente e si tuffò nella bianca foschia.

Vadim sedeva, curvo come sempre, e muoveva appena appena il volante, per controllare la tenuta d’aria. La neve gli correva incontro. Vadim vide solo una cometa bianca dalle mille code, il cui nucleo gli navigava lentamente davanti agli occhi. Accese gli schermi radar.

— A che servono questi schermi? — chiese Saul da dietro.

Vadim spiegò:

— Non vedo niente, e inoltre la neve avrebbe potuto coprirli.

— Grazie, — disse Saul. — Ho capito.

Il bioplano uscì dalla tormenta di neve. Si trovava ora su una piana collinosa. Vadim aumentava a poco a poco la velocità, il motore fischiava sordo, e sotto la chiglia passavano vorticose le cime tondeggianti dei colli. Il cielo era tutto bianco, bassa sull’orizzonte, a destra, splendeva una macchia accecante, l’EN 7031, e a nord si distinguevano chiaramente i contorni di una catena montuosa. La macchia accecante si spostava lentamente verso destra e verso le loro spalle: il bioplano stava descrivendo un arco intorno all’astronave del raggio di dieci chilometri. Davanti, a destra e a sinistra c’erano solo colline, colline e ancora colline. Anton disse all’improvviso:

— Guardate, una mandria!

Vadim frenò e tornò indietro. Il bioplano rimase sospeso, immobile. In una gola fra le colline si muoveva svelto un gruppetto di animali. Si trattava di quadrupedi, di non grandi dimensioni, che sembravano cervi senza corna, e si sforzavano saltando di avanzare nella neve, rovesciando all’indietro le lunghe teste dalle narici nere. Le zampe sottili si incagliavano nella neve alta, e gli animali cadevano, rotolavano su se stessi, sollevavano nubi di polvere di neve, poi si rialzavano e riprendevano a correre, incurvandosi a ogni salto. Lasciavano dietro di sé solchi di neve smossa. E dietro a questo solco, con i lunghi colli chini, si affrettavano sulle lunghe zampe nude enormi uccelli simili a struzzi. Solo i becchi di questi uccelli erano diversi da quelli degli struzzi, poderosi, gobbi, con la terribile punta rivolta all’ingiù.

Vadim scese in picchiata e sorvolò la gola. La mandria continuò a correre sotto il bioplano, non lo notò nemmeno, ma gli uccelli — erano tre — si fermarono di scatto, si sedettero sulle zampe ripiegate e, sollevate le teste, spalancarono il terribile becco. Che battuta di caccia, pensò di sfuggita Vadim, che battuta di caccia si sarebbe potuta organizzare! Alzò di nuovo il bioplano e cominciò a manovrare a saliscendi. Si abbassò fin quasi a sfiorare i becchi mostruosi, che schioccarono con un colpo secco. Ora il bioplano compiva balzi di due chilometri, volando verso il cielo basso, e ogni volta la pianura si dispiegava sotto di loro, e si vedeva che per decine di chilometri intorno si stendeva un deserto nevoso.

— Le cose si mettono male, — borbottò Saul.

— Perché?

— Gli uccelli…

Ma guarda un po’ che civiltà, pensava Vadim. Ricerche non ne hanno organizzate. Hanno fatto uscire dei ragazzini nudi, disarmati. Qui, probabilmente, senza armi non si può fare nemmeno un passo. Eppure erano dei ragazzini coraggiosi…

Il bioplano terminò il giro di dieci chilometri, e ne iniziò un secondo con un raggio di venti chilometri. E subito Anton disse:

— Ecco da dove vengono… Piega a destra di trenta gradi!

Al margine della pianura, sotto una catena di monti grigio-azzurri, si scorgevano appena delle macchie scure di forma regolare.

— Sembra un grosso centro abitato, — disse Saul. — Avete un binocolo qui?

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