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— Vedete, compagni, — disse in tono più morbido, — la gita turistica non siamo riusciti a farla. Le circostanze, secondo me, sono eccezionali. Probabilmente mi toccherà dare ordini e a voi toccherà obbedire, — guardò Saul e allargò le braccia con aria colpevole. — Vede, Saul, non si può far altro…

— Sì, — disse Saul. — Sì. Certo. Sono pronto, capitano. Ordini pure.

— Ma hai già capito qual è la situazione? — chiese Vadim.

— Ne parliamo dopo, disse Anton. — Prima bisogna mettere in incubazione il bioplano. Vieni, Vadim.

Saul posò la pipa e si alzò pure lui, aggiustandosi sulla spalla la cintura della pistola.

— Grazie, Saul, ce la caviamo da soli, — disse Anton.

— Vorrei venire con voi, — disse Saul. — Non vi darò fastidio, capitano.

Tirarono fuori l’ovocellula e la misero sulla sommità della collina più lontana. La neve cadeva sempre più fitta, i fiocchi di neve solleticavano le guance, e Vadim se le strofinava nervosamente. Il vento soffiava e si sentiva freddo a star fermi a guardare Anton che senza fretta e con cura piazzava gli attivizzatori sulla superficie liscia dell’embrione meccanico. Il vento bruciava le braccia e le gambe nude, e Vadim pensò all’improvviso che, forse, chissà dove, al di là delle colline c’era altra gente che vagava a piedi nudi, incespicando nella neve alta, vestita solo di lunghe tuniche grige.

Anton si raddrizzò e soffiò sulle mani arrossate.

— Sembra che vada, — disse. — Controlla, Dima.

Vadim controllò la posizione degli attivizzatori. Era tutto in ordine. Ritornarono all’astronave. Saul veniva per ultimo; si teneva sempre dietro di loro. La navicella già accumulava energia, come una montagna nera si stagliava sul bianco, la cuspide inclinata seguiva l’invisibile EN 7031. Per la strada Vadim raccolse dei fiori che gli fecero pena, tanto erano miseri e pallidi.

E vivi e morti
pian piano la neve ha coperto
E tutto è ora deserto.

La neve cadeva sempre più fitta, e quando arrivarono all’astronave Saul disse:

— Presto tutto sarà ricoperto. Non sarebbe male fare l’autopsia.

— Perché, — disse Anton. — Ormai sono morti.

— Appunto. Bisognerebbe chiarire perché siano morti.

— Sono assiderati, — disse Anton. — E non abbiamo bisogno di nessuna autopsia.

— Mi sembrerebbe… — iniziò Saul, ma tacque e si infilò nell’oblò. Nel quadrato Anton disse:

— Cerchi di capire, io non sono un medico. Non… non voglio.

— Capisco, — disse Saul.

— Vadim, — disse Anton, — impacchetta le vettovaglie. Tutte le provviste disponibili. Saul, lei ha detto che sa cucire. Bisogna adattare le tute. Io prenderò i medicinali.

Le tute erano di misura unica, ma la differenza di altezza fra Saul e Anton era troppo grande. Bisognava accorciare la tuta di Anton e allungare quella di Saul. E fu subito chiaro che Saul non sapeva cucire. Si passava smarrito l’ago ultrasonico da una mano all’altra, gualciva e lisciava le tute, e guardava Anton con aria mortificata. Evidentemente, gli storici, seduti nei loro comodi studi, non avevano idea di cose così semplici. Probabilmente, quello che principalmente li interessava era come si faceva una volta. Toccò a Vadim prendere l’ago di Saul e mostrargli come funzionava. Con sua meraviglia, lo storico si dimostrò perspicace, e qualche minuto dopo ognuno assolveva il suo compito.

Saul disse, senza alzare la testa dal lavoro:

— Perché pensa, capitano, che ci siano ancora dei vivi?

— Non lo penso, — rispose Anton. — Lo spero.

Vadim finì di riempire il sacco, lo chiuse e sedette al tavolo.

— E quegli altri quattro, sono giovani pure loro? — chiese.

— Sì, — disse Saul. — Proprio dei ragazzi. Quasi degli adolescenti. Molto più giovani di voi.

— Cinque anni fa, — disse Vadim, — io e degli altri ragazzi volevamo prendere un’astronave e volare su Tagora. Naturalmente, non ce lo permisero… Forse, questi ci sono riusciti?

— Assurdo, — disse Anton. — L’astronave la può avere solo un pilota esperto. E che esperienza hanno questi… Dei ragazzini! Del resto è tutto assurdo. Hanno le unghie dorate! E delle strane camicie sul corpo nudo.. E la cosa più importante è: come hanno fatto a finire qui?

— Molto semplice, — disse Vadim. — Qualcuno si preparava a partire, ha lasciato l’astronave davanti a casa, loro si sono radunati di notte e sono partiti. Volevano fare gli esploratori. E qui sono scesi e si sono persi. È sopraggiunto il gelo. Ecco tutto.

— Quello che stai dicendo — disse Anton freddamente — è assolutamente impossibile. Anche se le cose fossero andate così, io lo avrei saputo certamente. Sono morti da qualche giorno. Sulla Terra avrebbero dato inizio a delle ricerche globali.

— E se fossero arrivati qui con qualcuno più anziano?

Anton tacque.

— Allora andiamo a cercare gli anziani, — disse alla fine.

— C’è una cosa che mi lascia perplesso, — disse Vadim. — Queste strane camicie…

— Non sono camicie, — disse Saul inaspettatamente.

I due si girarono verso di lui.

— Sono sacchi. Con dei buchi per la testa e le mani. Sono dei rozzi sacchi di juta. Ora non ce ne sono più, — sogghignò sinistramente. — Vede, Vadim, quei ragazzi avrebbero potuto procurarsi più facilmente uno skorcer od una batisfera, piuttosto che uno di quei sacchi. Perché c’erano molto, molto tempo fa. E non mi piace affatto che andassero in giro nudi e che invece dei vestiti avessero dei sacchi.

Vadim sentì che il cuore aveva smesso dibattere. Gli sembrava strano e terribile questo fatto dei sacchi di juta che erano esistiti tanto, tanto tempo fa. Aveva una sensazione non di pericolo, ma proprio di terrore. Come se all’improvviso davanti ai suoi occhi una persona cominciasse a invecchiare repentinamente, invecchiasse, invecchiasse e si mutasse in un vecchio rugoso e avvizzito. Si scrollò e la sensazione scomparve. Saul rivoltò la tuta, se la sollevò davanti con le braccia tese e la osservò.

— E perciò io non sono d’accordo con voi, — continuò. — Penso che siano indigeni. E… non so se mi capite… Al tempo dei sacchi di juta avvenivano delle strane cose. Mi pare che questi giovani siano stati spogliati e abbandonati qui nel deserto. Provi, Anton.

Anton prese la tuta.

— Dunque, secondo lei, su Saul esiste una civiltà? — chiese incerto. — Ed è ancora al tempo dei sacchi di juta?

— Come faccio a saperlo, capitano? Parlo solo di quello che vedo. Vedo dei sacchi di juta, so che sacchi di juta sulla Terra ai nostri tempi non ce ne sono. Dunque non sono dei terrestri. Forse, sono stati rapinati, o forse sono dei pellegrini. Dei fanatici. Andavano a venerare le sante reliquie, vestiti, secondo il voto, con dei sacchi, hanno smarrito la strada, sono capitati in una bufera di neve… Non so.

Tutto questo Vadim lo capiva poco. Tutte queste parole — «fanatici», «reliquie», «voto» — le conosceva, erano in qualche modo legate ai rituali religiosi, ma non avevano per lui nessun significato reale. Pensò di sfuggita, con ammirazione, che Saul evidentemente era un vero specialista. Ma non fu questo a colpirlo.

— Una civiltà, dunque? — disse. — Allora… Siamo venuti a fare una passeggiata e, fra una cosa e l’altra, abbiamo scoperto una civiltà! Non ci credo! — annunciò.

— Fra una cosa e l’altra, — disse Anton pensieroso. — Fra una cosa e l’altra? EN 7031 era nel programma di ricerca…

— Sì, l’hai detto. Ma la spedizione non ha avuto luogo.

— La spedizione non ha avuto luogo, ma, fra l’altro, EN 7031 si trova nell’elenco delle stelle situate sull’ipotetica rotta dei Nomadi dello Spazio.

— Non ho mai sentito parlare di un elenco simile, — disse Vadim.

— Esiste invece. L’elenco di Gorbovskij-Bader. Per cui, le possibilità di scoprire una civiltà c’erano, caro Vadim. E forse Saul ha ragione, sono dei ragazzi indigeni. Ma quale rapporto abbiano con i Nomadi dello Spazio, questo è un altro problema…

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