Литмир - Электронная Библиотека
A
A

2.

La mia ape, stringendo la bianca bestiola pelosa che avevo rubata, mi seguì mentre vagavo innocentemente nella Torre di Giada. Mi aspettavo, subconsciamente, che mi cadessero tutti e due sulla testa. Le api degli altri sfrecciavano intorno, tutte efficienza e decisione programmata di servire. Io mi sentivo troppo vistosa — abito trasparente, catene d’anemoni d’oro, anelli alle dita dei piedi, unghie lunghe quanto le dita — estremamente Jang. E in tutta sincerità, non mi era mai piaciuto esagerare. Ci si sente così nudi quando si dimentica di mettere un fiore di orpello all’ombelico, e le unghie troppo lunghe sono pericolose.

Tutti gli Anziani mi rivolgevano cenni d’approvazione. Ero esattamente come dev’essere una persona giovane, tintinnante, quasi nuda, gli occhi monocolori ancora oscurati dall’estasi, e il mio vocabolario Jang che agiva come un catalizzatore in tutto ciò che andavo dicendo.

Mi avvicinai a un grande piatto girevole di orecchini-bomba profumati, che esalavano fumi fragranti, irradiavano luci ammiccanti dalle forme tormentate. Tesi la mano. Uno specchio fluttuante scese verso di me e mi mostrò il mio nuovo viso. Scelsi un paio di orecchini fosforescenti, li magnetizzai alle mie orecchie, e li guardai snodarsi e scendere amorevolmente lungo il collo, sulle spalle, e fermarsi con un sospiro sul mio addome.

«La signora è incantevole!» cantarono voci angeliche dall’alto della cupola trasparente.

Sapevo di essere venuta lì al momento sbagliato. Di solito le ragazze Jang arrivano di mattina, quando la Torre pulsa di Musica per l’Orecchio Superiore Jang, che in realtà non potete udire veramente, ma che in pochi secondi vi lancia nell’euforia. Allora riescono a venderti praticamente tutto, mentre le macchine gridano «Semplicemente groshing!» e «Ooma, è derisann!» tutto intorno a voi.

Poi, di colpo, mi sentii contemporaneamente stordita, felice e abbandonata. Le signore più anziane sembravano sbalordite: e si affrettarono a mettersi ì tappi. La Musica dell’Orecchio Superiore era stata alzata al massimo. Zaradann di gioia, maledissi i robot osservatori della Torre di Giada. Mi tolsi il mio bottino, misi la mano in mezzo a un mucchio di cianfrusaglie e la lasciai lì. Mi ributtai i capelli all’indietro e magnetizzai circa sei paia di orecchini arrotolati, che avevo appena preso, e che erano probabilmente tutti spaiati, sistemandoli nella crocchia sulla nuca. Ma fu solo un riflesso condizionato. Ero troppo estatica per ricavarne una vera e propria soddisfazione.

Passai davanti a una donna, mentre uscivo. Era occupatissima a pagare, in preda ad un’autentica frenesia, e notai che non aveva inserito i tappi per le orecchie, in modo che la Musica dell’Orecchio Superiore potesse aiutarla. Sinceramente, sarebbe stato meglio che lasciasse quelle cose ai Jang.

«È così groshing!» gridava lei mentre la macchina, sintonizzata solo sul suo abbigliamento e sui suoi capelli, stava dicendo:

«Assolutamente incantevole, signora,» e intanto la presa trasmetteva il suo entusiasmo agli elettrodi che cambiavano l’emozione in energia, e la convogliavano negli accumulatori della centrale principale di Quattro BEE.

Era abbastanza triste, tutto sommato. Io non pago mai per quello che prendo, se posso farne a meno. Io mi entusiasmo sempre senza eccitazione, e faccio diventare zaradann tutti gli assistenti robot.

3.

Davanti alla Torre di Giada mi stava aspettando Thinta, spazientita per quanto può esserlo lei: più paziente del solito, infatti.

Tirai fuori i miei orecchini e ne trovai un paio giusto e quattro spaiati. Thinta non mi badò. Li gettai dalla terrazza della Torre di Giada e guardai le reti d’onde elettriche che li catturavano alle varie intersezioni. La mia mente rimbalzò tra le orecchie smagnetizzate, allontanandosi dalla gioia e dalla delizia auditiva che avevano rovinato il mio furto.

«Attlevey, Thinta,» ricordai di dire. All’improvviso mi resi conto che avrei preferito rimanere sola, ma ormai Thinta era lì, e ci stavamo dirigendo verso una Stanza del Sogno.

No, davvero, le Stanze del Sogno mi piacevano. Non direi mai quali sogni programmavo per me stessa, sebbene Hergal sognasse sempre di volare. Penso che Hatta, probabilmente, sognava di essere una sorta di mostro tricefalo.

«Cos’è?» chiese Thinta, alzando lo sguardo verso il mio bestiolino bianco rubato, che scalciava e ululava nelle grinfie della mia ape. L’ape di Thinta si precipitò per aiutare. L’ape di Thinta si precipitava sempre per aiutare. È avvilente. Thinta cercò di accarezzare la mia bestiola, e la mia bestiola cercò di mordere Thinta.

«Finitela!» strillai a tutti quanti. Mi sentivo veramente piuttosto tosky.

Arrivammo alle Stanze del Sogno del Terzo Settore di Quattro BEE senza incidenti. Thinta volava prudentemente, e mi accorsi che preferivo di gran lunga essere con Hergal e sentire il sangue che mi defluiva dalla testa per la paura. Per la verità, quando sono con Hergal mi accorgo sempre che preferisco essere con Thinta, e non sentire il sangue che mi defluisce dalla testa per la paura.

«Siamo arrivate!» gridò Thinta, e atterrò in modo superbo in una delle reti. Voglio dire, non c’è bisogno di guidare niente in una rete. Sono lì apposta per prendervi. Oh, beh.

Uscimmo e salimmo su una motorotaia. C’era una quantità di gente che saliva e scendeva, e una volta tanto c’era una folla di Jang. Quelli che uscivano discutevano ciò che avevano sognato., tutti simboli e proiezioni astrali e così via. Mi sentivo un po’ piccina. Mi capitava spesso. Sinceramente, non riuscivo a sentirmi a mio agio in quel posto, se qualcuno non mi faceva sentire inferiore per quanto riguardava la scelta del sogno. La normale estasi onirica di un Jang è di essere una particella di luce pulsante, risucchiata tra soli ardenti, novae, e pallide lune fumiganti, una sorta di comprensione cosmica dell’atto d’amore. No, veramente, lo capivo in un lampo. Comunque, Hergal sognava di volare. Buon vecchio Hergal.

Il fondo del pozzo è delizioso: masse di architetture di rosee nubi ardenti, attraversate da raggi d’oro, e tutto si muove dolcemente. Alcuni robot che parevano nubi ci guidarono ai piccoli cubicoli trasparenti e ci aiutarono a toglierci gli indumenti e ad ancorarci sui comodi cuscini d’aria che praticano un massaggio tonico stimolante, mentre si sogna.

Salutai Thinta con un cenno della mano, mentre pareti, soffitto e pavimento cominciarono ad affumicarsi ed a diventare opachi, poi mi misi comoda e dettai il mio sogno al mio robot. Basta dare un’idea di quel che si vuole; pensano loro a creare la scena, i costumi, gli effetti speciali, e anche una quantità di piccole sorprese per farti piacere. Ma io ero un po’ una peste. Ho sempre avuto troppa immaginazione. Mi hanno detto, anche se naturalmente non lo ricordo in modo conscio, che durante il mio ventesimo di rorl alla ipnoscuola, quello era il problema peggiore per i miei insegnanti. Ero capace di trasformare un esercizio geometrico eptadimensionale in un’avventura epica, in cui tutti i piani e i doppi piani erano gli abitanti di una cittadella assediata, e combattevano con raggi paralizzatori orde di tripli bisettori.

Il robot lottò valorosamente con le mie descrizioni dettagliate dei colori, i miei rapidi ma complessi bozzetti dei costumi sul pannello ricettore dei pensieri, le mie esigenze in fatto di musiche di sottofondo, e la grandiosità dei palazzi in rovina su cui continuavo a insistere. Penso che Thinta fosse uscita ormai da un pezzo, quando il robot uscì barcollando.

Mi distesi, chiusi gli occhi, e attesi. All’improvviso provi questa sensazione che ti colpisce, e poi sei là…

Oh, molto bello!

La grandiosità dei palazzi in rovina, i blocchi di marmo caduti e le colonne che si levavano verso l’alto, scale sgretolate, e grandi spazi di finestre da cui entravano turbinando frecce ardenti di luce. In cielo un pianeta enorme incombeva, basso, come uno smeraldo butterato nel cielo verdepallido. Il deserto arido, lievemente scintillante, si estendeva a perdita d’occhio.

3
{"b":"121646","o":1}