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Poi trovai il bestiolino.

Balzò verso di me, dall’erba, come un fiore pallido e puro.

Adesso quasi non ricordo le risa e le corse, e i giochi e le danze: ma ricordo la felicità, la felicità simile ad una ferita che sanguina la scintilla vitale.

Oh, corremmo fianco a fianco, il bestiolino ed io, e non ho mai conosciuto un’eguale vicinanza con qualcuno della mia razza umana, come la sentivo con quell’animale bianco che avevo rubato, per un bisogno casuale e nevrotico, in un negozio di Quattro BEE.

Una volta, mentre eravamo distesi sull’erba, gli dissi:

«Devi avere un nome; no, no, devi averlo. Tu sei una personalità, come me, un essere, una vita.» E chiamai il bestiolino Fiordituono, per via dei fiori intorno a noi, cresciuti dalla pioggia e dai lampi e dal tuono. E poi riprendemmo a correre.

E come sarebbe stato semplice, se non avessimo mai trovato la via per ritornare alla nave delle sabbie. Ma la trovammo. Notai appena la vaga familiarità del paesaggio. Le terrazze rocciose, adesso, erano accese di fiori, nel rosseggiare del crepuscolo.

Continuammo a correre, fianco a fianco. Talvolta io ero un po’ più avanti, tra l’erba delle dune che mi arrivava al ginocchio, talvolta era il bestiolino, con la testa che superava appena il verde, la pelliccia arrossata dal riflesso del tramonto. E poi mi precedette, e lo vidi balzare in alto, al di sopra dell’erba, e ricadere, e non ricomparve più. Poi vidi il fremito dell’aria.

«Oh no!» gridai al deserto e al cielo. «Oh no, oh no, oh no, oh no!» E corsi avanti e mi lanciai contro la muraglia elettrica, che Assule aveva eretto per evitare le calamità.

Sì, è una sensazione strana, un tremito assoluto d’estasi fiammeggiante, come il quasi-orgasmo di una macchina dell’amore, ma ero appena stordita quando i robot vennero a raccogliermi.

Il bestiolino, naturalmente, era morto.

8.

Assule continuava a ripetermi che ero una stupida.

«Te l’avevo detto, della muraglia elettrica,» gridò. «Avresti potuto risentirne molto di più.»

Non parlò del bestiolino. Non disse che quel che mi era capitato era colpa mia perché ero scappata via così sconvenientemente. Io ero distesa nella mia cabina, e lo guardavo, e di tanto in tanto gli dicevo «Stai zitto». Le femmine stavano sulla porta e dicevano che era una vergogna che mi fossi fatta trovare nuda, e dov’erano le mie catenelle e i miei vestiti?

Quando mi lasciarono un po’ in pace mi feci portare da uno dei robot il bianco corpo peloso e inerte del bestiolino. Fissai i suoi occhi arancione, vitrei. Sembrava così pieno di beatitudine, nella morte.

«Voglio un avioplano per tornare in città,» dissi al Glar. «Subito.»

Bene, era fin troppo contento di sbarazzarsi di me, perciò ne chiamò uno, e io salii a bordo e tornai a casa, fissando i finestrini coperti, con il bestiolino sulle ginocchia. Non c’era più niente da vedere, comunque. La fioritura del deserto non resiste per più di un unit. Lo splendore che avevo attraversato stava già morendo.

A Quattro BEE andai subito al Limbo.

«Questo è il mio bestiolino,» dissi, «per me è molto importante. Voglio che gli diate un corpo nuovo.»

Ma quelli non vollero, e io sapevo che non avrebbero voluto. Tentarono di spiegare che c’erano ragioni morali.

«Non possiamo far questo per un animale,» dissero. «E poi, è morto da troppo tempo.» Ma questa era solo una scusa. Oh, spero che fosse una scusa.

Perciò andai a casa sola. E anche là fui sola.

E sognai per tutta la notte il deserto e il sole che non dovevo mordere, e finalmente capii il significato che aveva per me quel proverbio. Ero così stanca che adesso potevo ammetterlo. Avevo tentato tante volte, con tanto slancio, e non era servito a nulla.

Il sole. Oh, sì, il sole. Un pezzetto di argilla fragile mi aveva sconfitta all’improvviso, dal suo nido in un deserto d’arcobaleno e d’eruzione di fuochi. Sapevo cos’era il sole; forse quella scritta l’intendeva nello stesso senso, ma non ne sono sicura. Il sole era il Modo Ordinato di Vivere. Nel mio caso era il Modo Ordinato di andare all’ipnoscuola, di essere Jang, di diventare una Persona Anziana, tutta una vita tracciata irrevocabilmente, persino la morte non era permessa, era soltanto un corpo nuovo, o un lungo riposo in un crepuscolo che oscurava la mente, dopo di che il ciclo ricomincia ancora, quando sono stati cancellati tutti i ricordi del passato. Così irrevocabile, così inevitabile, così terribile, così noioso, così votato alla tragedia che era persino troppo piccolo, troppo opaco per essere veramente una tragedia. Non mordere il sole, ti brucerai la bocca. Io avevo morso continuamente, disperatamente, ed ero bruciata, ero bruciata. Ero una brace spenta.

Sapevo ciò che mi stava succedendo e ripetei a voce alta:

«Il bestiolino mi ha escluso ufficialmente dal suo circolo.» Poi capii che avevo obbedito alle regole e che ero libera di piangere.

PARTE QUINTA

1.

Rimasi a casa per quasi un decimo di vrek, immersa in una sorta di stupore. Probabilmente, piansi quasi sempre. Quando cominciai a venirne fuori, la prima cosa che notai fu che mi dolevano il naso e gli occhi, e che le mie guance, dove erano scorse le lacrime, erano infiammate. Perciò mi spalmai una lozione calmante, e mi feci impacchi agli occhi, e dopo circa venti split riacquistai almeno un aspetto normale. Poi sentii il suono del segnale dal portico, e accesi l’impagine, e vidi un maschio derisann, dai lunghi capelli e dai baffi color miele, e un corpo bellissimo, abbronzato, snello ed atletico.

«Hergal?» chiesi.

«Sono io, cara,» disse la voce splendidamente modulata, e quel «cara» mi fece capire che non poteva essere altro che Hatta.

«H…Hatta?»

«Sì, cara,» disse il bellissimo, groshing Hatta. «Ho saputo tutto. Mi dispiace moltissimo. Posso entrare?»

Attivai la porta e gli andai incontro. Ci incontrammo nell’atrio dorato, e lui mi appariva così derisann e così rattristato per me che lo abbracciai e ricominciai a piangere da consumarmi gli occhi. Era così buono. È sempre davvero così dolce, Hatta: credo che sia una bontà ossessiva, la sua.

Mi depose su un divano e accese la macchina della ninnananna e la musica supratonale più rasserenante che riuscì a trovare, e poi si sedette e mi cullò delicatamente tra le braccia.

Quando mi sentii un po’ meglio, mi asciugò la faccia. Io restai lì seduta a guardarlo mentre si versava del fuoco-e-ghiaccio, e mi imboccava di piccoli chicchi di zucchero.

«Sei così meraviglioso, Hatta,» dissi, e gli tremarono le mani. «Oh, Hatta,» dissi. «Sposiamoci. Subito.»

Ma lui mi fece sdraiare per quaranta split prima di lasciare che lo ripetessi. Poi disse, sottovoce:

«Sei sicura, ooma? Proprio sicura?»

«Oh, Hatta,» dissi io, «non fare lo sciocco. Come potrei trovare qualcosa da ridire?»

Lui scosse il capo, ma restò lì e attese paziente mentre io mi facevo un altro impacco alla faccia e mi preparavo. Poi partimmo con il suo avioplano a nolo, e volammo alla Cupola d’Avorio. Promettemmo di fare l’amore esclusivamente quel pomeriggio, e di tornare dopo a pagare, come bisogna fare quando si è nel periodo dell’annullamento.

Poi andammo in una delle grotte sotterranee, tra il verde e le conchiglie e il resto, e facemmo meravigliosamente l’amore. Credo che quando sei sconvolto e ti stai riprendendo da qualcosa di brutto, ricevi meglio. Comunque, fu groshing.

«Oh, Hatta,» sospirai dopo.

Ma lui girò la testa.

«Oh, Hatta, cosa succede?» chiesi. Mi alzai, girai intorno al giaciglio d’alghe sintetiche, e lui era lì disteso, a occhi chiusi, il viso inondato da grosse lacrime. «Hatta, Hatta,» implorai. «Ooma, che c’è?»

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