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Raggiunsi la sfera e chiusi la portiera, presi a calci la mia ape riducendola a una relativa sottomissione. Sedetti, e il bestiolino mi balzò in grembo. Lo guardai, guardai gli occhi che sembravano giungle arancioni, vissuti lontano, nei pressi di Quattro BOO, tra gli spuntoni di roccia e il deserto irrequieto.

«Hanno ragione loro,» dissi. «È inutile. Sono ancora Jang, e non voglio affatto correre avanti. Cos’è che non va, allora? Che cosa c’è di tanto terribile?»

Cinsi la bestiola con le braccia, appoggiandole la guancia sul pelo morbido: mi lasciò stare così per dieci split prima di darmi un morso.

5.

Hatta mi chiamò di nuovo, e io ero così stufa e frastornata che finii per dirgli che mi sarei trovata con lui per l’ottavo pasto.

Andammo al Cielo Azzurro e sedemmo sul pavimento trasparente, mentre la città che si oscurava si muoveva lentamente sotto di noi, e cercammo di mangiare l’insalata in ghiaccio senza lasciarci prendere dalle vertigini.

Al Palazzo della Commissione mi avevano assicurato che il mio disonorevole desiderio di smettere d’essere Jang non sarebbe mai trapelato e che i miei amici, quindi, non si sarebbero mai raggomitolati in preda a un isterismo urlante per la mia stupidità… cito più o meno alla lettera. Provavo comunque l’impulso incontrollabile di dirlo a Hatta: sembrava sempre così fidato e pacioso. Suppongo che la sua bruttezza contribuisse a dare quell’impressione. Ma non dissi niente. Credo che quelli della Commissione avessero veramente fatto un buon lavoro: e mi vergognavo davvero.

Quando arrivammo al momento delle confetture e dell’ananas-cactus, Hatta mi rivolse ancora una volta una proposta di matrimonio, e ancora una volta io rifiutai.

«Non potrei sopportarlo,» dissi. «Mi sento già abbastanza tosky così.»

Restammo seduti a guardare le luci che si accendevano, e io mi chiesi perché, se Hatta aveva tanto bisogno di me, non si cambiava in qualcosa di piacevole. Hatta mi era simpatico, dopotutto, e con un bel corpo sarebbe stato attraente. Poi pensai: Forse lo fa apposta per impedirmi di accettare. Forse in realtà non mi vuole affatto, si diverte solo a illudersi di volermi. Questo pensiero mi avvilì ancora di più, e dissi che volevo andare a casa.

Hatta è veramente molto buono. Sai che sarà sempre lì, disponibile, quando avrai bisogno di lui, e che se ne andrà quando vorrai che se ne vada.

Mi aggirai per il mio solitario palazzo di vetro, cercando vagamente la bestiola, che non si fece vedere.

«Dovresti dedicarti con maggiore slancio alle attività dei Jang,» mi aveva detto il Q-R. Rivolgiti da qualunque altra parte, presumibilmente, ma non alla Commissione. Benissimo, avrei preparato un programma di avventure per l’indomani. Migliaia di split più tardi persi la testa e non so cosa, e cominciai ad aggirami furibonda, totalmente frustrata per la mia mancanza di entusiasmo per tutto ciò che riuscivo a pensare. Accesi tutte le quadrovisioni e gli impianti musicali, e svegliai i pulitori della cucina e della casa, e restai lì seduta, in mezzo al caos più assoluto, tirandomi le ciocche dei capelli.

Mi portai a letto un ipnonastro e lo regolai perché mi dicesse per tutta la notte, nel sonno:

«Sarò costruttiva, sarò costruttiva. Penserò qualcosa di meraviglioso da fare.»

6.

E pensai qualcosa.

Davvero. Aprii gli occhi, con l’idea annidata nel mio cervello.

Avrei lavorato.

Qualcosa che mi interessasse, che occupasse il mio tempo, qualcosa per cui valesse la pena di svegliarmi. Non ero del tutto sicura che ci fossero cose del genere, a Quattro BEE. Uno dei miei fattori, una volta, era stato un po’ con le comunicazioni e tornava a casa ogni mid-vrek, meravigliosamente rilassato.

Guazzai felice nel mio bagno-laguna, mi vestii nel modo più Jang possibile, proprio per accontentarli tutti, e con la mia sfera corsi al Monumento di Zeefahr, e di lì al Palazzo della Commissione.

Venni introdotta immediatamente dal mio vecchio amico dal tappeto d’acqua, che mi guardò innervosito.

«Ho deciso di accettare il tuo consiglio,» dichiarai. «Mi piace essere Jang.»

«Uhm, bene,» rispose lui.

«Ti piace?» Girai su me stessa, mostrando tutte le mie conterie, le catenelle d’oro e i fiori e gli orpelli e le trasparenze. «E ho mangiato il primo pasto più popolare tra i Jang, pane degli angeli tostato, e ho comprato un’intera registrazione nuova di Musica per l’Orecchio Superiore… per la verità l’ho rubata,» confidai, con gaio abbandono. Era davvero una pazzia. Ma il mio Q-R neanche aveva capito. Le sue antenne delle emozioni dovevano essere ritte come penne d’oca. Sorrise e disse:

«E cosa vuoi, precisamente, signorina?»

«Lavorare,» tubai io.

«Capisco,» disse lui. E restammo lì a guardarci.

«Purtroppo,» disse ancora lui, dopo un po’, «dobbiamo tornare al problema iniziale.»

«Oh, sì?» dissi. Dovevo avere l’aria minacciosa. Lui portò distrattamente la mano su un pulsante d’allarme, pronto a far accorrere un milione di robot in suo soccorso, se gli fossi saltata addosso per strappargli i baffi o qualcosa del genere.

«Vedi,» disse, tenendomi d’occhio, «la Commissione non dà impieghi ai Jang. Le vostre menti debbono essere libere di pensare alla ricreazione e al piacere. Gli Anziani, se lo desiderano, possono prestare servizi volontari di vario tipo, certamente, ma negli anni formativi…»

«Hai mai chiesto a uno Jang se gli piacerebbe trascorrere qualche anno formativo facendo qualcosa di utile?» domandai.

«Ehm…» fece lui.

«’Nuove leggi per i mondi nuovi’, mi pare che sia uno dei motti della Commissione,» prosegui al galoppo.

«Questo non è…» tentò il Q-R.

«E come fai a sapere che questa generazione di Jang sia proprio eguale alla precedente? E allora? Potremmo essere tutti varianti emotive, e tu te ne stai lì e ci ignori!»

Il quasi-Robot sembrava turbato, ma non dalla mia brillante logica oratoria. Era turbato come lo siete voi quando cercate di spiegare a un animale del deserto che deve far pipì nello scarico a vuoto, non nella quadrovisione. Ma poi, all’improvviso, mi tolse il fiato chiedendomi:

«E a cosa pensi di lavorare?»

«Beh, cosa c’è da fare?» balbettai io.

«Pochissimo,» mi rispose. «Particolarmente in questo momento.» Poi aggiunse: «Toglieresti la possibilità di lavorare a un Anziano, che ha il diritto di farlo?» Ma non gli diedi ascolto. A chi poteva importare? A lui no di sicuro, ci avrei scommesso.

Poi si alzò.

«Ti accompagnerò,» disse, «a fare un breve giro nei centri di lavoro di Quattro BEE. È la procedura consueta, quando qualcuno fa una richiesta del genere.»

Uscimmo a bordo di una piccola barca celeste del Palazzo della Commissione, che volava a bassa quota. Il vento continuava a sbattere i miei chilometri di capelli scarlatti negli occhi del Q-R, ma lui fu molto buono. La mia ape gli cadde sulla testa e lui fu molto buono anche in questo caso.

Finimmo nella rete del Centro Trasmissioni del Secondo Settore, e il modo in cui il Q-R bloccò bruscamente i comandi e ci fece scendere a casaccio, rischiando di mancare del tutto le reti, mi fece ricordare Hergal, con un senso di nostalgia.

All’interno era tutto fulgido, con slogan ingemmati e targhe che ricordavano eventi particolarmente brillanti (?) come l’ultimo sabotaggio dei Jang: avevano lasciato entrare una nube vulcanica nel Primo Settore, due notti prima, nascondendo le stelle (oh, sì, lo ricordavamo bene, io e il Q-R); o come quando un animale del deserto era fuggito nel Quarto Settore e aveva causato «caos e distruzione». Beh, caos, forse… credo. Nella sala principale c’erano robot che andavano e venivano, portando notizie da ogni angolo della città, e gli schermi trasmettevano inquadrature riprese dall’alto, con tanto di zoomate se cominciava a succedere qualcosa di epicamente frenetico, come una strada mobile che si incastrava per due split. Devo dire che tutto quanto mi diede un’impressione di efficienza e di vivacità… cioè, a parte gli Anziani. Erano due: stavano seduti a guardare la quadrovisione e di tanto in tanto premevano un pulsante o facevano scattare un interruttore.

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