4.
Thinta mi disse che ero zaradann se andavo; Kley rise con voce rauca; Hatta si mostrò triste e ripugnante. Avrei voluto che fosse triste e bello, perché allora avrei potuto dar retta all’impulso di coccolarlo e di dirgli «Oh, ooma, non fare così!» senza aver voglia di vomitare subito dopo. Lui non era bello, comunque, così non lo coccolai.
Rimasi sorpresa quando Danor venne a trovarmi. C’erano undici maschi e persino un paio di femmine che le ronzavano intorno, con sguardi lucidi e avidi d’attesa negli occhi ornati di lustrini.
«Hanno in corso una scommessa,» disse Danor, prendendomi in disparte, «per vedere a chi soccomberò per primo.»
Danor mi sbalordì: un tempo così sfacciato, adesso mi sembrava… serena?
«Mi sembra molto drumdik,» dissi. «Hai provato a ritornare maschio per liberartene?»
«Sì, l’ho fatto,» mormorò Danor. «Si sono suicidati subito tutti e sono tornati cambiati in ragazze.» Ridacchiò, e io vidi una vaga espressione triste di malizia nei suoi occhi. «Comunque, ooma,» continuò, «divertiti tra le rovine.» E mi baciò con tanta dolcezza da indurmi a prendere nota mentalmente che, la prossima volta che io fossi stata maschio e Danor femmina, sarebbe stata un’idea provare ancora i fluttuanti e vedere se stavolta sarebbe andata meglio. In quanto ai corteggiatori, diventarono di tutte le sfumature di verde e di marrone, per il timore che li avessi battuti tutti quanti.
Il Glar Assule mi chiamò di nuovo e disse che il gruppo doveva riunirsi dopo cinque unit davanti — indovinate! — al Museo della Robotica.
«Oh, ma è derisann!» feci, raggiante, e lui mi lanciò un’occhiataccia.
Disse che per tre o quattro unit aveva alcune cose urgenti da sbrigare, e che questo spiegava il ritardo, ma io penso che in realtà volesse procrastinare, nella speranza che qualcun altro lo chiamasse per chiedere di partecipare alla spedizione. Comunque, nessuno lo fece, e cinque unit dopo ci incontrammo, irritati, mentre quella piccola dannata ape robot ci ronzava intorno, captando brandelli d’informazione per i comunicati. Io le dissi di andarsene, e tutti mi guardarono con aria di disapprovazione.
Gli altri tre volontari erano una catastrofe totale. E non erano neppure favorevoli ai Jang, almeno lì. Pensavano che io avrei dovuto essere a far l’amore o ad andare in estasi, ben lontano da loro. Si ostinavano a chiamarmi «cara» continuamente, con una sfumatura di tono che indicava che avrebbero preferito chiamarmi con molti altri nomi, come Maledetta-Peste-che-sei-venuta-a-rovinarci-la-possibilità-di-accalappiare-il-Glair. Erano tutte femmine.
Lui arrivò tardi e soddisfatto di sé. Ci accompagnò ad una nave delle sabbie privata che aveva noleggiato apposta e aveva fatto riprogrammare per portarci nel posto giusto. La nave era piena di apparecchiature, dei suoi robot, delle sue idee sull’arredamento di una nave (cioè drappi pelosi arancione e bronzo accecante) e di lui. Le femmine gli cinguettavano intorno. «Sì, Glar,» e «No, Glar,» trillavano. E il Glar era a suo agio? E potevano dire al robot di portare qualcosa al Glar? Ero così felice di aver portato il bestiolino. Quelle rabbrividivano ogni volta che lui si avvicinava: ma in realtà non lo faceva, se appena poteva evitarle. Glar Assule non se la cavò poi tanto male, comunque. Con l’aria di lottare per non farsi prendere un colpo, accarezzò la testa del bestiolino e per poco non si buscò un morso, e si dichiarò lieto di constatare che mi interessavo alla fauna selvatica del deserto. Io ammisi che il bestiolino era davvero abbastanza selvatico.
Comunque, alla fine partimmo e — gioia e gaudio! — la Torre Trasparente era sempre trasparente. Andammo a sederci là, ma ben presto le tre femmine cominciarono ad agitarsi; se ne andarono a preparare qualche arancio del deserto in ghiaccio o a giocare con le loro macchine a uncinetto.
Io, il bestiolino e il Glar restammo, e il Glar fu molto impressionato nel vedere che il deserto mi affascinava. Una volta vidi un drappello di animali purpurei dal pelo lunghissimo, che scavavano intorno a certe dune, e lui fu addirittura in grado di dirmi che cos’erano.
Cominciai a sentirmi serena e spensierata. Non fate mai una cosa simile: è come attirare qualche forza tenebrosa e malvagia dall’universo.
Durante la notte, mi pare, le tre femmine litigarono per stabilire chi doveva fare l’amore con il caro vecchio Assule, e poi, quando per poco non si furono ammazzate e la vincitrice si avviò barcollando verso la cabina di lui, con le piume strappate e le palpebre macchiate, si scoprì che lui aveva un sonno maledetto, e la buttò fuori quando lei protestò. Ci fu un baccano enorme, ma il bestiolino ed io ci divertimmo un mondo.
Venne l’alba, ed eravamo arrivati. Le femmine erano molto sconvolte perché avevano organizzato un primo pasto molto elaborato per il Glar e lui rifiutò di perder tempo a mangiarlo.
Comunque, fu molto bravo a organizzarci. Suppongo che contribuissero le sue tendenze dominatrici. Prendemmo vino bollente e quattro compresse d’ossigeno a testa.
«Quando arrivate,» disse lui, «ricordate di respirare normalmente e di non sforzarvi per aspirare più aria: non ne avrete bisogno. E non è come nuotare sott’acqua, quando non si respira affatto,» aggiunse rivolgendosi a me. Alzai le spalle. Bene, tutti i Jang nuotano sott’acqua. E con questo? Poi i robot portarono fuori l’equipaggiamento, passando per la piccola valvola stagna, e poi uscimmo anche noi, e oh…
È tutto vero, là fuori.
È tutto bellissimo e vero, e pulsante e canoro e vivo!
Barcollai; il glar mi sorresse e scattò: «Ti avevo detto che dovevi respirare, no? Perché non mi hai dato ascolto?»
Ma io avevo respirato. Era mancato poco che mi rovesciassi i polmoni.
Era tutto così…
E così…
Tremavo.
Era l’alba: rossa, questa volta, a causa di qualche montagna così ooma che eruttava fiamme, e più verde verso la sommità del cielo, e più sopra di velluto scuro, con un’ultima spolverata zuccherina di stelle. Tutto intorno, le sagome altissime, che non erano edifici ma montagne, si innalzavano come se volessero vederci, o forse come se cercassero di non vederci, di guardare soltanto quel gran cielo limpido. E il cielo era così enorme. Mi dava le vertigini.
«Ci siamo,» disse il Glar. grandiosamente, come se avesse inventato tutto lui. «Venite.» E noi marciammo dietro dì lui sulla sabbia inondata dall’alba sanguigna e luminosa.
Assule indicò una piattaforma di roccia e alcune terrazze di roccia che vi salivano.
«Ecco il posto,» annunciò.
«Ed ecco il sole,» mormorai io.
Il bestiolino perse di colpo la testa, o la ritrovò, e schizzò via dal mio fianco per andare a rotolarsi in quella sabbia pazza, spruzzando tutti quanti.
«Oh, fermalo! Ferma quel mostriciattolo!» strillarono le femmine.
Il Glar non se ne accorse neppure.
Avanzava in testa, a grandi passi, seguito dai robot e dal macchinario, scavando grandi rivoli nella sabbia, dove noi dovevamo camminare.
Il sito aveva presumibilmente qualcosa a che fare con i nomadi e cose del genere: una cittadella primitiva di roccia, dove quelli si fermavano di tanto in tanto. E quelle erano le fondamenta. Assule riteneva che fossero state coperte dalla sabbia secoli prima; poi qualche tempesta l’aveva spazzata via. Tra poco avrebbe piovuto, disse, e allora avremmo dovuto tornare in fretta alla nave per ripararci. A quanto pareva, quelle erano piogge che bagnavano.
La terza femmina continuava a sentirsi svenire e ad appoggiarsi ad Assule perché non aveva imparato la tecnica per respirare. Le altre erano furiose di non aver avuto quell’idea prima di lei.
Facemmo il primo pasto sul sito, seduti su pesanti tappeti. Assule continuò a parlare della civiltà che un tempo era sorta lì. Avrebbe potuto essere molto interessante, se non fosse riuscito a renderlo così noioso. Non so come ci riuscisse, in effetti. Forse aveva un talento innato per far diventare tutti droad, suppongo.