«E di prima scelta!» rise lei. Aveva i capelli lunghi, di un malva crepuscolare, intrecciati e coperti di gemme. Aveva degli smeraldi fissati sui capezzoli dei piccoli seni deliziosi, e un perizoma di fiori.
La mia felicità esplose e scomparve. Spiegai tutto, tra i singhiozzi della mia furiosa delusione.
«Beh, ma come potevo saperlo?» mi chiese Hergal, abbastanza ragionevolmente. Cercò di consolarmi, ma al contatto del suo braccio morbido mi precipitai fuori e tornai a casa. Avevo dimenticato di regalarle il serpente, ma il mio bestiolino ci si divertì, e per giorni interi io caddi, inciampai e scivolai sulle scaglie di perla staccate. Era un simbolo, credo, delle mie speranze distrutte.
4.
Mi chiamò Hatta.
Per torturare me stessa, fissandolo nei quattro occhi rosa, pensai di dirgli: «Hatta, fai un bambino con me.» Ugh! Solo a pensarci… Non credevo, comunque, che la Commissione l’avrebbe permesso. La piccola avrebbe avuto tre o quattro teste, e gli zoccoli, o chissà che altro ancora.
«No,» dissi a Hatta, ma in realtà non avevo ascoltato quel che stava dicendo: ma avevo indovinato esattamente, credo, a giudicare dalla sua espressione addolorata. Lui se ne andò.
Il bestiolino aveva voglia di giocare e io no. Ci fu un litigio unilaterale e lui mi morsicò.
Chi? Il problema era tutto lì. Chi? Chi? Chi? Non riuscivo a pensare a nessuno che mi andasse bene, per dare l’altra metà della mia bambina. E poi, sembrava che adesso fossero tutti femmine. Persino Kley.
E poi pensai alle navi delle sabbie che salpano, una ogni dodici unit, da Quattro BEE, attraversano il Deserto Ardente, eccetera, e arrivano a Quattro BOO e a Quattro BAA. Forse là un bel corpo, con dentro una bella scintilla di vita, stava aspettando di rendersi utile. Oh, gioia!
«Vuoi venire con me?» chiesi dubbiosa, al bestiolino.
Sapevo che avrebbe insistito per venire, e avrebbe continuato a mordere tutti quanti, e sarebbe diventato zaradann nei momenti meno opportuni. Mi seguì sul portico, barrendo sommessamente.
«E allora vieni.» Lo sollevai e cercai di schivare, senza riuscirvi, un morso sul naso che però, per fortuna, non era un morso ma un bacio.
5.
Era veramente strano, lasciare Quattro BEE.
Bisognava prenotare il posto, sulle navi delle sabbie, ma io ebbi fortuna, mi dissero, perché era una stagione morta per i viaggi. In realtà, adesso è sempre stagione morta. Il deserto e le grandi montagne nere ed i vulcani, spenti o no, fanno venire i brividi alla gente. Quando salii a bordo, vidi che i miei compagni di viaggio stavano seduti tutto intorno, rattrappiti, in attesa di venir trascinati nel seno inospitale di quello che, dopotutto, era il nostro pianeta. C’erano alcuni Jang, ma evidentemente formavano un circolo completo che non avrebbe accettato l’intromissione di un’estranea come me. Comunque, sembravano molto femmine, persino i due maschi. E anche loro stavano rattrappiti, sebbene superficialmente fossero così giovani e ardimentosi. Probabilmente non avevano mai compiuto neppure un sabotaggio. Devo ammettere che al primo sabotaggio che io avevo fatto, insieme a Hergal e a Kley, quasi un ottavo di rorl prima, mi ero sentita veramente in preda all’agorafobia, davanti ai grandi spazi aperti oltre il posto di vedetta 6D, benché fosse anche meraviglioso, trovare qualcosa che ti facesse davvero girare lo stomaco. Gli altri due o tre passeggeri erano Anziani: una teneva abbracciato un animale roseo, e io mi affrettai ad agguantare il mio bestiolino per la collottola, piuttosto preoccupata.
«Non ti ci provare,» dissi.
Il bestiolino, che sembrava l’incarnazione dell’innocenza più candida, si leccò il manto lustro.
Eravamo lì seduti da un po’, quando arrivò a bordo un robot e ci spuntò, con irritante lentezza, su una lista dei passeggeri fissata ad una delle colonne d’acciaio.
Il robot mi informò che il mio animale non era registrato, e che dovevo firmare un documento speciale, se volevo tenerlo a bordo. Poco mancò che approfittassi dell’occasione per far buttare fuori il bestiolino, ma non ne ebbi il coraggio, perciò firmai. Il bestiolino cercò di mordere il robot. Ci fu parecchio chiasso. Evviva, mi mettevo di nuovo in vista.
Poi ci fu uno sferragliare, e gli ululati delle sirene, e partimmo a un lento galoppo. Le reti dell’eiettore ci afferrarono con qualche sussulto qua e là, e uscimmo, con un fischio acutissimo, dalla cupola di onde elettriche che ricopre Quattro BEE. La luce cambiò. Vi fu un tonfo sommesso quando i portelli della cupola si chiusero. I passeggeri si voltarono tutti a guardare le finestre coperte: avevano un’aria spaventata, nonostante fingessero bonomia e sangue freddo. E poi arrivò questo annuncio che quasi mi fece soffocare di sadica allegria:
«Quelli tra voi che desiderano recarsi alla Torre Trasparente a poppa ora possono andare.»
E nessuno, naturalmente, si mosse. Beh, voglio dire, guardare tutta quella roba così drumdik, quel deserto bestialmente grande, tutti quegli orrendi fenomeni naturali, come le rocce scolpite dalla pioggia e la ghiaia cesellata dal vento… Mi alzai, quasi senza accorgermene. Benissimo, io volevo davvero andare nella Torre Trasparente. Per poco il robot non crollò, ma riuscì a seguirmi, un po’ barcollante, per attivare una macchina-guida che cominciò a sdottoreggiare sui vari fenomeni naturali. Il bestiolino mi seguì, e anche lui sbirciò fuori, probabilmente ricordando il suo deserto nei pressi di Quattro BOO, nei bei tempi andati, prima che della stupida gente lo tirasse fuori dalla tana per quelle sue lunghe, impossibili vibrisse arricciolate, e lo condannasse a diventare l’animale domestico di una sciocca come me.
La Torre Trasparente era ovale, fatta di videoglacia, resistente alla pressione atmosferica, al maltempo, alla sabbia, ma completamente trasparente, davvero. Anche la cupola era limpida, e portava una specie di emblema confuso di una vecchia flotta di navi del deserto. Sono un’istituzione molto antica. Tutti pensavano che sarebbero state sostituite dalle macchine trasferitrici, fino a quando avevamo constatato che queste fanno vomitare. Ma ormai, tutti erano diventati restii a viaggiare.
«Che effetto fa, guidare una reliquia?» chiesi alla macchina-guida, che tentava di mettermi in soggezione trasformandosi in venti paia d’occhi fissati su un collo girevole. «No, non voglio guardare quella faglia geologica. E neanche quel vulcano spento sulla sinistra. Voglio guardare da me.» E guardai da me. Sinceramente, le guglie di roccia sembravano castelli fantastici usciti da un mito. Mi sorpresi a immaginare che lo fossero davvero, e mi bloccai. Oh, ma… e il cielo era scuro, più turchese che celeste, con una sfumatura verde che lo percorreva continuamente. Tutto il resto era in vari toni di nero, con strane venature rosso-rosa qua e là, tranne la sabbia che era chiara e sembrava riflettere un arcobaleno. Turbini di polvere che scintillavano, e canyon che si spalancavano; ed io stavo per abbandonarmi ad una frenesia silenziosa quando all’improvviso i lati e il tetto diventarono opachi. Mi lamentai con il robot, ma a quanto pare la Torre si schiarisce automaticamente in certi periodi del giorno e poi si oscura rapidamente, nel caso che lo spettacolo sia troppo forte e ci sia il rischio che tu ti precipiti come uno zaradann in giro per la nave.
Ridiscesi, e scoprii che il bestiolino era scappato e si stava azzuffando con l’animaletto roseo, e tutti gli altri erano in preda all’isterismo. Volevano sapere perché non ero capace di tenere a bada il mio mostro. No, non ero capace: se la sentivano di provare loro? Tutti indietreggiarono, e io mi lanciai e in qualche modo riuscii ad agguantare il bestiolino e a prendermi anche parecchi morsi. La femmina anziana afferrò l’animaletto roseo, tutto scarmigliato e ringhiante, e se lo strinse al seno. L’animaletto le sferrò calci.