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«Ooma, Hatta,» dissi, facendo le fusa. Chiunque ti sembra carino, quando sei in estasi, persino Hatta, che era grasso e coperto di macchie, adesso, e con tre occhi.

«Attlevey, ooma. Ancora groshing, vedo. Ma non te ne stufi mai, neanche un po’?»

«No,» dissi io.

«Ti porto fuori a mangiare. Bisogna pur mangiare, prima o poi, no?»

«Beh, ho fame. Sono annegata subito dopo il terzo pasto, e questo corpo nuovo non ha mangiato niente.»

Uscimmo. Hatta mi sorreggeva, perché ero molto in estasi, e andammo al ponte fluttuante. La mia orrenda, abominevole ape ci corse dietro. Non riuscivo proprio a liberarmene. Questa volta cadde addosso a Hatta.

«Onk!» esclamò Hatta, che come al solito era tipicamente, schifosamente blando, qualunque cosa gli capiti. Io buttai l’ape giù dal ponte, ma quella tornò indietro. «Andiamo all’Abisso di Fuoco.»

L’Abisso di Fuoco, dicono, è il posto più adatto dove andare, quando ci si sente giù. Quasi mi rianimai un po’, ma alla fine, poco prima che ci arrivassimo, la mia Esigenza Neurotica si impose, e dovetti lasciare il ponte per andare a rubare qualcosa. Era un qualcosa vivo, questa volta, con il lungo pelo bianco e i grandi occhi arancione. Le sue vibrisse si impigliarono nei miei capelli, e io lo diedi da tenere per un momento alla mia ape, prima di diventare isterica.

«Ecco, ci siamo,» disse Hatta.

Balzammo giù dal ponte, e piombammo per circa sei metri, fino a quando la rete di onde elettriche dell’Abisso di Fuoco ci catturò al volo. Hatta sembrava avere l’aria di scusarsi. Nell’Abisso di Fuoco tutto arde di fiamme scarlatte. I tavoli fluttuano tra le fiamme, che non sono calde, naturalmente, e piccoli fulmini globulari saltellano dolcemente nei piatti. Mi intonai subito.

«Avevo dimenticato i tuoi capelli,» disse Hatta.

Ormai, comunque, mi ero calmata, ma lui mi mise in bocca un’altra pillola dell’estasi, per precauzione, e poi dovette portarmi di peso su un divano.

«Cosa prendi, mia cara?» chiese dolcemente.

Rabbrividii di quel suo vocabolario così poco Jang, augurandomi che nessuno avesse sentito.

Prendemmo una grossa bistecca di noce alla fiamma, con frutti brucianti di ogni genere, infilati sugli spiedini. Hatta tagliò le porzioni con il coltello ad ago molecolare e sbagliò tutto, comunque qualcosa riuscimmo a mangiare. Ormai l’estasi cominciava ad attenuarsi.

«Ho saputo,» borbottò Hatta, masticando la bistecca, «che hai fatto escludere ufficialmente Hergal.»

«Sì,» dissi io.

Per un po’, Hatta continuò a mangiare. Arrivò la nostra bottiglia di fuoco-e-ghiaccio, e lui la fiutò, l’assaggiò e fissò il soffitto fiammeggiante.

«Otto-primo Rorl, non dovrei meravigliarmi,» disse Hatta. Io toccai uno spiedino, ma Hatta si limitò a mormorare: «Ehm, devo ammettere che hai un aspetto veramente groshing.»

«Grazie. Non posso dire altrettanto di te, ooma.»

«Il fatto è,» rispose nervosamente lui, «che ormai non ho più fatto l’amore da due unit, e mi stavo chiedendo se non potremmo sposarci per il pomeriggio.»

«No, non potremmo proprio, finché tu hai quell’aspetto,» dissi io. Beh, dicevo sul serio. Una quantità di foruncoli infiammati e un paio di tonnellate che ti calano addosso, con tre occhi gialli senza pupille per osservare l’effetto!

«Senti,» mi incoraggiò Hatta, «non capisci che è un’Esperienza Essenziale fare all’amore con un corpo verso il quale non provi alcuna attrazione?»

«Perché?» No, non avevo intenzione di lasciarmi rimbambire con il gergo Jang dell’Esperienza Essenziale, particolarmente da quel vecchio reazionario di Hatta.

«Ecco…» cominciò lui.

Fummo interrotti. Kley e Danor erano arrivati con un animale da compagnia, che subito cominciò ad azzuffarsi con la bestiolina bianca che avevo rubato, e quindi con la mia ape. Nella confusione, rovesciarono i divani di fuoco fluttuante e si ingozzarono della nostra bistecca di noce. Questa volta erano entrambi maschi, dai lunghi capelli iridescenti, e Danor aveva quelle stupide ali, come Hergal, che continuavano a far cadere gli oggetti dal tavolo.

Mi salutarono vagamente e cominciarono a chiacchierare con Hatta.

Mi alzai, mi misi sotto il braccio il mio bianco animaletto peloso, e vuotai il terzo calice di fuoco-e-ghiaccio.

«Devo scappare, oomas,» dissi allegramente.

«Oh, ma…» cominciò Hatta.

«Ti ringrazio per il meraviglioso quarto pasto, Hatta,» dissi. «Ci vediamo al tuo prossimo corpo.»

Scappai.

Fuori, era uno di quei deprimenti pomeriggi di cristallo azzurro, con gocce dorate di sole. Il tempo è sempre perfetto, a Quattro BEE, ma di tanto in tanto i Jang riescono a sabotare qualcosa, e allora abbiamo una groshing, urlante tempesta di sabbia, che supera i raggi della barriera e ci rallegra tutti. Non dimenticherò mai quella volta che io e Danor, tutte e due femmine, allora, potrei aggiungere, sabotammo il controllore robot al Posto di Guardia 9A e facemmo entrare una pioggia di cenere vulcanica da una delle grandi montagne nere là fuori, torrenti e torrenti per unit e unit… tutto diventò zaradann. Dovettero consegnare i viveri per avioplano, e le strade erano piene di robot che tentavano di disseppellirci tutti. Una volta, riuscimmo persino a combinare un terremoto. Non crollò nulla, naturalmente, anche se avevamo sperato che cadesse il Museo della Robotica. Hergal ed io, quella volta, eravamo seduti in una grande torre di cristallo, e cercavamo senza riuscirci di fare all’amore telepaticamente, e la torre vibrava come gelatina, molto più di quanto ci riuscissimo noi.

Andai a un posto di chiamata, e feci trasmettere l’immagine del mio corpo nuovo, in modo che i miei amici (?) potessero riconoscermi. Accesi uno schermo per inquadrare il Monumento a Zeefahr e rimasi un’eternità ad aspettare, per vedere se Hergal gli precipitava contro dal cielo, ma non successe niente. Allora chiamai Thinta.

«Attlevey,» disse quando la sua immagine tridimensionale femminile apparve davanti a me. Era carina, piacevolmente grassottella, con grandi occhi verdi e i capelli un po’ lanosi. Non era cambiata da un’eternità: la stabilità, finalmente.

«Oh attlevey, ooma, stavo facendo un vestito d’acqua.»

Lo sollevò per mostrarlo, verde e opalescente, un po’ sgocciolante.

«Thinta,» dissi, «mi sono appena annegata e sono tornata così, e sono assolutamente droad.»

«Oh, non sapevo che eri tu,» rispose Thinta. Evidentemente, non aveva ancora visto il mio comunicato.

«Bene, ooma, perché non vai a una Stanza del Sogno? Se aspetti uno split, ti raggiungo.» E sparì.

A Thinta piacevano le Stanze del Sogno, sebbene fossero considerate molto poco Jang. Vi si incontra sempre una quantità di Anziani con «idee fisse», i quali vi dicono che non dovreste essere lì, dovreste essere fuori a far l’amore o ad andare in estasi o a provare i cambiamenti di sesso o la Distorsione dei Sensi, come ci si aspetta che facciano tutti i giovani. Andai nella Torre di Giada a rubare qualche gioiello mentre attendevo che Thinta arrivasse caprioleggiando col suo minuscolo avioplano rosa.

Il furto è un’arte assoluta, ed è uno dei miei pochi piaceri semplici.

Nella Torre di Giada c’è un grosso drago, allevato in non so che fattoria nei pressi di Quattro BAA. Fa tintinnare le scaglie laminate di giada, e dalla bocca gli esce un fuoco verde che ti fa una doccia completa, profumata di pino, molto tonificante. Quel drago mi è sempre piaciuto. Stimola il mio romanticismo. Una volta sono rimasta seduta per un’eternità nella sua bocca tepida, e ho cercato di convincere Kley a salvarmi, ma lui si è limitato a prendere una pillola dell’estasi ed è crollato scortesemente. Lo avevo messo in imbarazzo, credo.

«Attlevey, drago,» dissi.

Entrai per un po’ nel suo orecchio destro, che sembra una conchiglia, e pensai che cosa mi sarebbe piaciuto rubare, mentre il drago ruggiva e innaffiava tutti quanti.

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