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L’aria della notte gli scompigliò i capelli e gli schiarì la mente quando sfrecciò per le strade silenziose sulla ronzante bicicletta elettrica. Era freddo, ma fu la vista delle luci gialle dei veicoli del soccorso stradale che gli gelò le ossa, appena ebbe svoltato nel vasto Parco dei Padri Fondatori. Che Dio il Padre non voglia… Ma no, no, era affrettato pensare al peggio solo perché Janos e il soccorso stradale si trovavano nello stesso luogo. Sicuramente si trattava di una vicinanza casuale e senza rapporto.

Nessuna ambulanza, niente polizia municipale; soltanto un paio di veicoli di servizio mandati da qualche garage. Ma se non c’era sangue sull’asfalto, perché quella piccola folla affascinata? Fermò la bicicletta presso le querce allineate sul lato sud del parco, si accorse che gli spettatori stavano guardando all’insù e alzò la testa, seguendo il raggio dei fari puntati fra il fogliame scuro.

La sua Aerostar De Luxe. Parcheggiata sulla cima di una quercia alta 25 metri.

No… incastrata sulla cima di una quercia alta 25 metri. Il propulsore sfondato dai rami, le ali semi-retrattili accartocciate, gli sportelli aperti. Il cuore di Ethan si fermò alla vista della cintura di sicurezza del posto di pilotaggio che penzolava fuori. Il vento aumentò, i rami oscillarono con allarmanti crepitii e la folla fece prudentemente qualche passo indietro. Lui s’incamminò in mezzo alla gente per vedere meglio. Fra i pezzi di plastica e i detriti vegetali piovuti sull’asfalto non c’erano tracce di sangue…

— Ehi, signore, meglio che lei non stia qui sotto. È pericoloso.

— Quella lassù sembra la mia vettura… è una Aerostar De Luxe rosso fiamma, no? — disse Ethan. — In cima a un dannato albero, maledizione. — Accorgendosi di avere la voce stupidamente stridula per la tensione tacque, e si schiarì la gola. Abbassò gli occhi e lo irritò vedere che alcuni dei presenti ridacchiavano. Cosa trovavano di divertente nella vista di una vettura nuova di zecca ridotta in quelle condizioni? Fece qualche passo indietro, poi si girò ad afferrare per una manica l’uomo del garage che gli aveva rivolto la parola.

— Senta, il giovanotto che guidava quella Aerostar, dove…

— È andato via da un pezzo. L’ho visto salire sull’ambulanza.

— L’hanno portato all’ospedale? È ferito?

— No, non mi è parso. Lui no, almeno. Il suo amico aveva un brutto taglio nella testa, invece. Comunque, mi sembra di aver sentito che gli agenti li avrebbero accompagnati al pronto soccorso e poi portati alla stazione della Polizia Municipale, dove suppongo che passeranno qualche guaio. Il conducente stava cantando.

— Ah. Era… ubriaco, vuol dire? — domandò Ethan.

— Ehi lei, ha detto che quella vettura là in cima è sua? — lo interpellò un uomo con la divisa della Protezione Ambientale, avvicinandosi.

— Credo di sì. Io sono il Dr. Urquhart. Perché?

L’uomo della Protezione Ambientale tirò fuori un minicom tascabile sul cui schermo c’era un modulo compilato a mezzo. — Lei si rende conto che questo albero ha quasi duecento anni? È stato piantato dagli stessi Padri Fondatori, e ha un valore storico incalcolabile. Guardi adesso quella crepatura sul tronco, spaccato quasi da cima a fondo…

— La tengo, Fred! — gridò una voce dall’alto. — Abbassa, ora. Piano… ho detto piano!

— Toglietevi di mezzo, laggiù! Via, via!

— Come responsabile dei danni, lei dovrà…

Uno schianto di legno che si spezzava, un violento fruscio sulla chioma dell’albero, un: — Aaah! — della folla, e il gemito acuto di un veicolo antigravità le cui piastre stavano andando all’improvviso fuori fase.

— Oh, merda! — imprecò una voce alla sommità della quercia. La folla si disperse di corsa, fra imprecazioni e grida d’avvertimento.

Cinque metri al secondo, fu il pensiero isterico di Ethan. 25 metri d’altezza per… quanti chili pesava una Aerostar De Luxe?

L’impatto a muso in giù sull’asfalto fece schizzare via il parabrezza e irretì di pieghe orizzontali simili a onde la scintillante carrozzeria rossa, da cima a fondo. Alcuni frammenti rotolarono o volarono fin dall’altra parte della strada. Nel breve intervallo di assoluto silenzio che seguì lo schianto Ethan poté udire lo sfrigolio della costosa elettronica interna che andava in corto circuito. La batteria era rimasta intatta, evidentemente; ne ebbe la prova quando alcune scintille appiccarono il fuoco al quadro dei comandi.

La testa bionda di Janos si volse quando il giovanotto sentì la voce di Ethan, alla Stazione della Polizia Municipale di Sevarin. Parve stupito di vederlo lì.

— Oh, Ethan — lo salutò con calma. — Già di ritorno dalla capitale? Spero che tu abbia fatto buon viaggio. Io ho avuto una giornataccia, temo. — Fece una pausa, poi schioccò le dita. — A proposito… uh, hai trovato la tua Aerostar?

— L’ho trovata.

— Non ci saranno problemi, stai tranquillo. Tu lascia fare a me. Ho chiamato il garage. Forse l’hanno già tirata giù.

Il barbuto sergente di polizia con cui Janos stava parlando, seduto dall’altra parte della scrivania, fece udire un grugnito. — Certa gente non la lascerei andar fuori neanche su un triciclo a pedali, se volete sapere la mia opinione.

— L’hanno tirata giù — annuì seccamente Ethan. — Ho pagato il conto del garage. E ho pagato i danni per l’albero.

— L’albero?

— Monumento storico, dovrei chiamarlo. Questo è il nominativo della pianta sul modulo che mi ha rilasciato la Protezione Ambientale.

— Oh, capisco. Che pignoleria, per qualche rametto spezzato.

— Come hai fatto? — lo interrogò Ethan. — A incastrarti su quella quercia, voglio dire.

— Gli uccelli, Ethan — spiegò Janos. — Sono stati loro.

— Gli uccelli. Ti hanno costretto a scendere di quota, intendi?

— Non proprio. — Janos ridacchiò, a disagio. La popolazione avicola di Sevarin, tutta discendente da fagiani e galli selvatici fuggiti dai primi insediamenti, era attualmente lasciata libera nelle zone più abitate dove trovava da mangiare fra i rifiuti, ma non era formata da specie molto capaci di volare. I grossi pennuti venivano tenuti sotto controllo dalla Sorveglianza Ambientale, che li considerava una noia. Ethan gettò uno sguardo alla faccia del sergente e constatò che non sembrava preoccupato della sorte degli uccelli. Era un sollievo; la vista di un altro modulo per danni da pagare gli avrebbe fatto venire una crisi di nervi.

— Vedi — continuò Janos, — abbiamo scoperto che quegli stupidi uccelli potevano essere abbattuti, con un po’ di vera abilità… passandogli molto vicino, voglio dire, quelli vanno in stallo e precipitano a vite, proprio come gli aerei antichi. È come la guerra nell’aria, capisci, uno dirige addosso al nemico e… bang! lo butta giù. — Le mani di Janos saettarono qua e là, evocando le eroiche picchiate dell’aereo da caccia. — Waaam… e giù un altro. È un utile esercizio di volo, no?

Athos non aveva avuto nemici né guerre nei suoi duecento anni di storia. Ethan digrignò i denti, ma conservò la calma. — E l’ultima picchiata si è conclusa sull’albero. Colpa del buio, suppongo. Sì, ora capisco come sia potuto accadere.

— No, questo è successo prima del tramonto. Era giorno.

Ethan fece un rapido calcolo. — Prima delle sei. Posso chiederti come mai non eri al lavoro?

— Be’, questo è colpa tua, mi spiace ma devo proprio dirtelo. Se tu non te ne fossi andato all’alba per accompagnare quel rompiscatole alla capitale, io non avrei dormito fino a tardi.

— Ho rimesso la sveglia. Non ha suonato alle otto meno dieci?

— Sai benissimo che non riesco a svegliarmi con quell’affare.

Vero. Tirare Janos già dal letto, fargli ingoiare la colazione e spedirlo fuori dalla porta, vestito e in orario per andare al lavoro, era il primo duro lavoro della giornata di Ethan.

— Però io ci sono andato lo stesso, dato che non ero in ritardo neanche di tre quarti d’ora — continuò Janos. — Ma in corridoio ho trovato il capo, invelenito per chissà quale motivo suo. Insomma, non ha voluto sentire ragioni e… be’. mi ha licenziato. — Abbassò lo sguardo sugli stivaletti e li inclinò da una parte e dall’altra, accigliandosi, come se si accorgesse soltanto allora di quant’erano impolverati.

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