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— Grazie, andiamo a piedi.

Cirocco e Gaby smontarono. I titanidi s’incamminarono, un po’ incerti, giù per i fianchi del crinale, proseguendo in direzione est. Seguendoli, si accorsero che il vento e il rumore diventavano sempre più forti.

— Se va avanti così — urlò Cirocco — diventiamo sorde!

Ma quando raggiunsero il punto in cui i titanidi si erano fermati, videro che non potevano proseguire.

C’erano sette buchi, ognuno sul fondo di burroni alti e ripidi. Sei buchi avevano un diametro da cinquanta a duecento metri. Il Grande Ululante avrebbe potuto ingoiarli tutti assieme.

Cirocco valutò che fosse profondo un chilometro e largo mezzo nel punto di maggiore ampiezza. L’apertura ovale si trovava in mezzo a due trefoli di cavo che si incrociavano, formando una grande V. Al loro punto d’incontro si spalancava il buco.

Le pareti interne erano così lisce da riflettere la luce del giorno, come speculi distorti. Erano state lisciate da migliaia d’anni di impatto col vento e con la sabbia abrasiva trasportata dal vento. Il colore della pietra era nero, con sfumature perlacee.

Cornamusa cantò qualcosa all’orecchio di Cirocco.

— Cos’ha detto? — volle sapere Gaby.

— Dice che chiamano questo posto l’inguine di Gea — urlò.

— Giusto. Ci troviamo su una delle sue gambe.

— Forse è questo il perché.

Tornarono in cima al crinale, dove il rumore era meno forte. Chissà cosa ne pensavano i titanidi di quel posto, così vicino alla loro città. Cirocco si guardò attorno. Se la base del cavo era la mano gigantesca che avevano visto prima, erano arrivati fino alla seconda nocca di un dito. Il Grande Ululante si trovava nell’insenatura fra due dita.

— C’è un’altra via per salire? — cantò Cirocco. — Una via per raggiungere la grande pianura lassù in alto senza essere risucchiati da Gea?

Flauto, che era un po’ più anziano di Cornamusa, annuì.

— Sì, molte. Quello è il buco più grande: è la madre di tutti i buchi. Seguendo uno di questi crinali si raggiunge l’altopiano.

— E allora perché non mi ci avete portata?

Cornamusa parve sorpresa. — Hai detto che volevi vedere il posto dei venti, non salire a incontrare Gea.

— Mi sono spiegata male. Ma qual è la via migliore per arrivare in cima?

— Fino in cima? — cantò Cornamusa, spalancando gli occhi. — Ma io scherzavo. Non vorrai salire lassù?

— Voglio provare.

Cornamusa indicò il primo crinale a sud. Non sembrava più difficile da superare di quello su cui si trovavano. I titanidi avevano impiegato un’ora e mezzo, per cui lei pensava di farcela in sette o otto ore. Altre sei ore di terreno in salita per raggiungere l’altopiano, e poi…

Visto da lì, il cavo inclinato era una montagna enorme. Si alzava nel cielo per cinquanta chilometri circa, fino a scomparire nel buio. Per i primi tre chilometri non cresceva niente; c’era solo terriccio scuro e roccia. Poi, qualche altro chilometro di alberi contorti, privi di foglie. Più in alto, la resistentissima vegetazione di Gea si era abbarbicata al cavo, che verdeggiava per tutto il resto della sua lunghezza. Impossibile capire se si trattasse di erba o di alberi.

Il verde arrivava fino alla zona di tramonto di Rea. Il passaggio dalla luce al buio era graduale; dal verde al bronzo, all’oro scuro e al rosso cupo, per finire col colore di una coltre di nubi che oscurassero la luna. Il cavo diventava completamente invisibile, raggiungeva le tenebre della volta e spariva nell’apertura del raggio. Si riusciva a distinguere il raggio che si restringeva gradualmente, ma gli altri particolari si perdevano nel buio.

— Si può fare — disse a Gaby. — Per lo meno possiamo arrivare fino alla volta. Speravo che qui, alla base del cavo, ci fosse un ascensore meccanico, o qualcosa del genere. E forse c’è davvero, ma dovremmo impiegare mesi per trovarlo. — E agitò la mano a indicare tutto quel terreno corrugato.

Gaby studiò il cavo inclinato, sospirò e scosse la testa.

— Io vado dove vai tu, però è una follia. Non arriveremo mai oltre la volta. Dài un’occhiata. Da lì in su, dovremmo risalire un’inclinazione di quarantacinque gradi.

— I rocciatori non fanno altro. E una cosa del genere l’abbiamo fatta anche noi, quando ci preparavamo a partire con Ringmaster.

— Sì. Per dieci metri. Qui si tratta di cinquanta o sessanta chilometri. E per finire ti do la notizia migliore: più avanti dobbiamo salire in verticale. Per quattrocento chilometri.

— Non sarà facile, ma dobbiamo tentare.

— Madre de Dios! - Gaby si colpì la fronte col dorso della mano e roteò gli occhi.

Cornamusa aveva seguito con attenzione ogni gesto di Cirocco.

— Salirai la grande scalinata? — cantò.

— Lo devo.

Cornamusa annuì, poi si chinò a baciare la fronte di Cirocco.

— Vorrei che la piantaste — disse lei, in inglese.

— Perché ha fatto così? — chiese Gaby.

— Non ti preoccupare. Andiamo.

Lasciato il posto dei venti, si fermarono a mangiare. Il cibo era caldo, custodito in termos vegetali. Gaby e Cirocco mangiarono solo un decimo delle provviste; i due titanidi divorarono tutto il resto.

A cinque chilometri da Titantown, Cornamusa girò la testa, con un’espressione di tensione e di tristezza insieme. Guardò la volta buia.

— Gea respira — cantò, depressa.

— Cosa? Sei sicura? Credevo che il suo respiro fosse rumoroso e che si facesse in tempo a… Vuoi dire che arriveranno gli angeli?

— È rumoroso da ovest — precisò Cornamusa. — Da est il respiro di Gea è silenzioso. Mi sembra di sentirli. — Incespicò, e per poco Cirocco non volò a terra.

— Allora sbrighiamoci, maledizione! Se vi trovano qui non avete possibilità di salvezza!

— È troppo tardi — cantò Cornamusa, e già la sua faccia si deformava in una smorfia di odio.

— Muovetevi! — Cirocco lo cantò con tale autorità che i due titanidi si misero a galoppare l’uno vicino all’altro.

Dopo un po’ anche lei sentì il gemito degli angeli. Cornamusa era irrequieta, voleva correre alla battaglia.

Si stavano avvicinando a un albero isolato. Cirocco prese una decisione.

— Fermatevi. Non abbiamo molto tempo.

Si fermarono sotto le fronde. Cirocco saltò a terra. Cornamusa tentò di correre via. Cirocco la calmò momentaneamente con uno schiaffo in faccia.

— Gaby, leva quelle bisacce. Flauto, fermo! Torna qui!

Indeciso, Flauto tornò indietro. Cirocco e Gaby si misero freneticamente a tagliare a pezzi i vestiti, fabbricando corde robuste.

— Amici miei — cantò Cirocco — non ho tempo di spiegare. Vi chiedo di avere fiducia in me e di fare quello che vi dico. — La forza di convinzione che mise nel canto funzionò, almeno un poco, anche se i due titanidi continuavano a guardare verso est, irrequieti.

Li fece sdraiare sui fianchi.

— Fa male — si lamentò Cornamusa quando Cirocco le legò le zampe posteriori.

— Scusami. È per il tuo bene. — Le legò anche le zampe anteriori e le braccia, poi lanciò a Gaby una fiaschetta di vino. — Fagliene bere più che puoi. Devono essere tanto ubriachi da non riuscire a stare in piedi.

— Okay.

— Figlia mia, voglio che tu beva — cantò. — Anche tu. Bevetene molto. — Incollò la fiaschetta alla bocca di Cornamusa. Adesso il gemito degli angeli era più vicino. Le orecchie dei titanidi si alzavano e si abbassavano freneticamente.

— Cotone, cotone — mormorò Cirocco. Strappò un po’ di stoffa dalla tunica già lacera, l’arrotolò e l’infilò nelle orecchie di Cornamusa. — Ha funzionato per Ulisse, speriamo che funzioni anche per noi. Gaby, tappagli le orecchie.

— Fa male! — cantò Cornamusa. — Fammi alzare, Mostro-della-Terra. Questo gioco non mi piace. — Cominciò a mugolare ma solo di tanto in tanto le note che emetteva si trasformavano in suoni d’odio.

— Ancora un po’ di vino — ordinò Cirocco, e la costrinse a bere. Adesso il richiamo degli angeli era fortissimo. Cornamusa cominciò a gridare per rispondere a quel richiamo. Cirocco afferrò le grandi orecchie del titanide, si mise la sua testa in grembo, si chinò su di lei e le cantò una ninnananna.

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