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— Così ho percepito — cantò il titanide. — Pensavo che tu stessi per cadere. Ma certo saprai cosa è meglio per la tua specie.

Gaby guardava Cirocco con aria strana.

— Che diavolo succede? — le chiese.

— La capisco — rispose Cirocco, senza addentrarsi nella questione. — Mi ha detto di stare attenta.

— Attenta a… cosa?!

— Come fa Calvin a capire gli aerostati? Qualcuno si è divertito coi nostri cervelli, cara. Adesso la cosa ci torna utile, per cui zitta. — Corse avanti prima che Gaby facesse altre domande, perché non conosceva nemmeno una risposta.

— Siete le genti dell’acquitrino? — chiese il titanide. — Oppure Venite dal mare ghiacciato?

— No — gorgheggiò Cirocco. — Abbiamo attraversato l’acquitrino nel nostro viaggio verso… il mare maligno, ma uno di noi è ferito. Non intendiamo farvi del male.

— Ben poco male potrete farmi se andrete al mare maligno, perché morirete. Siete troppo grandi per essere angeli che hanno perso le ali, e troppo graziosi per creature del mare. Confesso di non aver mai incontrato gente simile a voi.

— Non… non potresti scendere qui sulla spiaggia? Il mio canto è debole, il vento non lo porta lontano.

— Sarò lì in due scrollate di coda.

— Rocky! — sibilò Gaby. — Attenta, scende! — Estrasse il pugnale, mettendosi di fronte a Cirocco.

— Lo so — disse Cirocco facendole abbassare il braccio armato. — Gliel’ho chiesto io. Rimetti via quel pugnale prima che cambi idea. Se c’è pericolo, urlo.

Il titanide scese a braccia tese per mantenere l’equilibrio. Danzò leggero sulla collina, poi corse verso di loro cavalcando la piccola valanga che aveva provocato. Il rumore degli zoccoli sulla roccia aveva un suono familiare.

Era più alto di Cirocco di trenta centimetri, il che le fece fare un passo indietro quando le fu vicino, per poterlo vedere meglio. Per lei era una sensazione davvero insolita: quella creatura avrebbe superato in altezza anche un giocatore di pallacanestro. Vista da vicino, era ancora più aliena proprio perché in parte così umana.

Una serie di strisce rosse, arancione e blu, sulla faccia e sul petto, che Cirocco pensava fossero naturali, erano invece dipinte. Quattro strisce a zigzag erano disegnate sul ventre, appena sopra il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi l’ombelico, che però non esisteva.

La faccia era abbastanza grande da non far sembrare stonati il naso ampio e la bocca larga. Gli occhi erano enormi, molto spaziati. Le iridi erano di un giallo brillante. Una serie di linee verdi a raggiera circondava le grandi pupille.

Gli occhi erano talmente sorprendenti da far quasi dimenticare i tratti non umani della faccia. Cirocco aveva pensato che dietro ogni orecchio fosse infilato un fiore strano, e invece quelle erano proprio le orecchie. Le estremità a punta sporgevano al di sopra della testa.

— Mi chiamo Do Diesis… — cantò l’essere. Era una serie di note musicali in chiave di do diesis.

— Cos’ha detto? — sussurrò Gaby.

— Ha detto di chiamarsi… — e ne modulò il nome mentre le orecchie del titanide, si drizzavano.

— Non capisco se me lo dici così — protestò Gaby.

— Chiamalo solo Do Diesis. Vuoi stare zitta e lasciarmi parlare? — Si girò di nuovo verso il titanide.

— Io mi chiamo Cirocco, e anche capitano Jones — cantò. — Questa è la mia amica Gaby.

Le orecchie del titanide caddero di colpo sulle spalle.

— Soltanto "Sir-occ-o anche capitan-gions"? — cantò, imitando il tono monotono di Cirocco. Quando sospirò, le sue narici di dilatarono, ma il petto non si mosse di un millimetro. — È un nome lungo, ma non molto aereo, se posso dirlo. Non provate gioia, voi strane genti, per darvi nomi così tetri?

— Sono altri a scegliere i nostri nomi — rispose Cirocco, imbarazzata dalla povertà del proprio canto. — La nostra lingua non è come la vostra, e non possediamo tanta potenza di canto.

Do Diesis rise; una risata decisamente umana.

— È vero, tu parli con la voce di un esile giunco, però mi piaci. Vi inviterei alla casa della mia madre posteriore per una festa, se vi sembrasse opportuno accettare.

— Verremmo con gioia, ma uno di noi è ferito. Abbiamo bisogno di aiuto.

— E chi di voi? — Le orecchie del titanide si abbassarono per la costernazione.

— Nessuna di noi, un altro. Si è rotto l’osso di una delle gambe. — Cirocco notò che il linguaggio del titanide possedeva una costruzione pronominale per il maschile e il femminile. Nella sua mente volteggiarono frammenti di canti che alludevano alla madre-maschio e alla madre-femmina, e ad altri concetti ancora più confusi.

— L’osso di una gamba — cantò Do Diesis, muovendo di continuo le orecchie. — Se la mia idea non è errata, per voi che non avete quattro gambe è cosa molto seria. Chiamerò subito la guaritrice.

Sollevò il bastone e cantò un attimo in una protuberanza verde posta all’estremità. Gaby spalancò gli occhi.

— Conoscono la radio? Rocky, dimmi: cosa sta succedendo?

— Ha detto che chiamava il medico. E che io ho un nome tetro.

— Un medico servirebbe, ma chissà che cosa…

— Non credi che lo sappia? — sussurrò Cirocco, rabbiosa. — Bill sta malissimo. Non penso che starà peggio se gli danno un’occhiata, anche se sarà uno stregone col suo sacchetto di oggetti magici.

— Era la vostra lingua? — chiese Do Diesis. — O un disturbo di respirazione?

— La nostra lingua. Io…

— Perdonami. La mia madre posteriore dice che non possiedo tatto. Ho solo… — Cantò il numero ventisette, seguito da un’unità di tempo che Cirocco non riuscì a tradurre. — E molto devo apprendere oltre la conoscenza del grembo.

— Capisco — cantò Cirocco, che non capiva. — Dobbiamo sembrarti strane. Tu sei strana, per noi.

— Davvero? — Dal tono sorpreso si capiva che l’idea le era nuova.

— Mai avevamo visto la tua gente.

— Così dev’essere. Ma se non avete mai visto un titanide, donde venite nella grande ruota del mondo?

Cirocco era molto perplessa da come la sua mente traduceva i suoni di Do Diesis.

D’improvviso, udendo la nota donde, Cirocco si rese conto che Do Diesis stava usando le tonalità riservate ai giovani che parlano agli anziani. Allora passò alla gamma cromatica dei toni riservati alla conversazione istruttiva.

— Non dalla ruota. Oltre le pareti del mondo c’è un altro luogo più grande che voi non potete vedere…

— Oh! Vieni dalla Terra!

Non aveva detto Terra, così come non si autodefiniva titanide. Ma l’impatto del termine che indicava il terzo pianeta del Sole sorprese Cirocco. Anche Do Diesis passò al linguaggio istruttivo, sempre più eccitata. Agitava le orecchie in continuazione; se fossero state un po’ più grandi, sarebbe volata via.

— Sono confusa — cantò. — Credevo che la Terra fosse una favola per i giovani, nata attorno al fuoco. E credevo che gli esseri della Terra fossero come i titanidi.

Cirocco fece attenzione all’ultima parola, chiedendosi se andasse tradotta con gente, come nell’espressione: noi gente, voi barbari. Ma non c’era nessuna implicazione sciovinista. Do Diesis parlava della propria razza come di una fra le tante di Gea.

— Noi siamo i primi a essere giunti qui — cantò Cirocco.

— Sono sorpresa che sappiate di noi, poiché noi non sapevamo niente di voi fino a poco fa.

— Non cantate le nostre gesta, come noi cantiamo le vostre?

— Temo di no.

Do Diesis si guardò dietro le spalle. In cima alla collina c’era un altro titanide che le somigliava molto, ma con una differenza sconcertante.

— Si Bemolle… — cantò; poi, con l’aria di volersi scusare, tornò al tono formale di conversazione. — Prima che giunga qui, vorrei porti una domanda che mi brucia l’anima da quando ti ho vista.

— Non devi trattarmi come un’anziana — cantò Cirocco.

— Potrei essere più giovane di te.

— Oh, no. Secondo il tempo della Terra io ho tre anni. Quello che vorrei sapere, nella speranza che non sia un interrogativo impudente, è come fate a restare tanto tempo su due sole gambe senza cadere?

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