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Per la prima volta da quando era arrivata su Temi si sentiva felice. Non contava naturalmente l’incontro con Gaby e Calvin, perché quella era stata un’emozione che aveva sfiorato l’isteria. Era così che ci si sentiva bene.

Non era mai stata una persona che si divertiva molto. C’erano stati molti momenti belli sul Ringmaster, ma pochi che fossero vero divertimento fine a se stesso. Cercando di pensare all’ultima volta che si era sentita così bene, stabilì che era stato il party in cui aveva saputo di aver ottenuto il comando per cui stava lottando da sette anni. Fece un sorrisetto al ricordo: era stato proprio un bel ricevimento.

Ma allontanò ben presto qualsiasi pensiero dalla mente e lasciò che lo spirito fluttuasse libero. Era consapevole di ogni muscolo, di ogni frammento di sé. C’era uno sconvolgente sentimento di libertà nell’arrampicarsi nuda su un albero. Fino a quel momento, la sua nudità era stata una seccatura o un pericolo. Ora l’adorava. Sentiva la pelle ruvida dell’albero sotto i piedi e la morbida flessibilità dei rami. Desiderava mettersi a urlare come Tarzan.

Avvicinandosi alla cima, udì un suono che prima non c’era, era una specie di scricchiolio continuo. Veniva da un punto coperto dalle foglie giallo-verdi davanti a lei, qualche metro più in basso.

Con cautela estrema si spostò su un ramo orizzontale e guardò.

Aveva davanti una parete grigia. Non aveva idea di cosa potesse essere. Si udì di nuovo lo scricchiolio, più forte, sopra di lei. Qualche ramo spezzato cadde in basso. Poi, improvvisamente, apparve l’occhio.

Urlò, poi chiuse subito la bocca. Senza nemmeno sapere come, era indietreggiata di tre metri, fissando sbalordita quell’occhio mostruoso. Era enorme, umido, e sorprendentemente umano.

L’occhio ammiccò.

Una membrana sottile si contrasse, come l’obiettivo di una macchina fotografica, poi si riaprì velocissima.

Batté tutti i record personali nella discesa senza badare alle spellature, e continuando a gridare. Gaby era sveglia, aveva in mano un osso di sorrisone e sembrava pronta a usarlo.

— Giù, giù! — urlò Cirocco. — Lassù c’è qualcosa che potrebbe usare questo albero come stuzzicadenti! — Superò al volo gli ultimi otto metri, arrivò a terra a quattro zampe, e stava già scendendo di corsa la collina quando andò a sbattere contro Calvin.

— Non mi hai sentita? Dobbiamo andarcene! C’è qualcosa…

— Lo so, lo so — disse lui, cercando di calmarla. — Non c’è motivo di preoccuparsi. Non ho fatto in tempo a parlarvene prima che vi metteste a dormire.

Cirocco si sentì improvvisamente svuotata, ma tutt’altro che calma. Era terribile avere quella carica nervosa e non poterla usare. I suoi piedi volevano mettersi a correre, e invece finì col prendersela con Calvin.

— Merda, Calvin! Non hai avuto il tempo di parlarmi di una cosa come quella? Cos’è, e cosa ne sai?

— È il nostro biglietto di andata da qui. Si chiama… — Fischiò tre note chiare con un trillo finale. — Ma forse il suo nome non è adatto all’inglese. Io lo chiamo Finefischio.

— Lo chiami Finefischio — ripeté Cirocco, distrutta.

— Esatto. È un aerostato.

— Un aerostato?

— Ha l’aspetto di un dirigibile, però non lo è, perché non possiede uno scheletro rigido. Adesso lo chiamo così vedi da te. — Calvin s’infilò due dita in bocca e fischiò una melodia strana, complessa, a intervalli bizzarri.

— Lo sta chiamando — disse Cirocco.

— Già, ho sentito — rispose Gaby. — Stai bene adesso?

— Credo di sì. Ma i miei capelli diventeranno grigi prima del tempo.

Dall’alto venne una serie di trilli di risposta, poi non successe niente per diversi minuti. Aspettarono.

Finefischio apparve da sinistra. Volava parallelamente alla parete del precipizio, a una distanza di tre o quattrocento metri; ma anche da lontano ne vedevano solo una parte. Era una specie di sipario blu-grigio che bloccava la loro visuale. Poi Cirocco scorse l’occhio. Calvin fischiò di nuovo, l’occhio li cercò, li trovò. Calvin le guardò al di sopra della spalla.

— Non ci vede molto bene — spiegò Calvin.

— Io sono per stargli fuori vista. Magari posso andare nella più vicina contea.

— Non sarebbe abbastanza lontano — disse Gaby, sgomenta. — Il suo posteriore sarebbe di sicuro nella più vicina contea.

Il muso scomparve e Finefischio continuò a sfilare sotto i loro occhi. E sfilare. E sfilare, e sfilare, e sfilare. Sembrava interminabile.

— Dove sta andando? — chiese Cirocco.

— Gli ci vuole un po’ per fermarsi — rispose Calvin. — Ma ce l’ha quasi fatta.

Salirono tutti e tre sull’orlo del precipizio per osservare meglio l’operazione.

Finefischio l’aerostato era lungo un chilometro da prua a poppa. Sembrava un’imitazione perfetta del dirigibile tedesco Hindenburg, molto più grande dell’originale. Gli mancava solo la svastica dipinta su una fiancata.

No, non era esatto. Somigliava di più all’LZ-129, il dirigibile che la NASA stava progettando da anni. La forma era la stessa: un sigaro oblungo, smussato, e affusolato a poppa. C’era persino una specie di navicella che pendeva da sotto il ventre, anche se in posizione più arretrata che nell’Hindenburg. Erano diversi il colore e la consistenza della pelle. Finefischio era perfettamente liscio, come i vecchi aerostati della Goodyear, e adesso che lo vedeva in piena luce si accorgeva di un’iridescenza perlacea e di una certa untuosità della pelle.

E poi l’Hindenburg non aveva peli. Finefischio invece aveva un po’ di peluria sotto il ventre, più folta e lunga a metà corpo, rada e bluastra verso coda. Un ciuffo di delicati peduncoli pendeva sotto la navicella centrale, o che altro fosse.

Poi c’erano gli occhi, e le pinne caudali. Cirocco vide un solo occhio, ma pensò che dovessero essercene altri. Dalla coda spuntavano tre pinne, due orizzontali e una verticale. Probabilmente servivano a dirigere il volo. Mentre quell’affare mostruoso cercava di rivolgere il muso verso di loro, le pinne si flettevano. Erano sottili e trasparenti, estremamente flessibili.

— Tu… ehm, tu parli con quella roba lì? — chiese a Calvin.

— Abbastanza bene. — Calvin sorrideva all’aerostato, ed era felice come Cirocco non l’aveva mai visto.

— Allora è una lingua facile da imparare.

— No, non direi.

— Eppure sei qui da quanto? Sette giorni?

— Insomma, io so come parlargli. So molte cose di lui.

— E come fai a saperle?

La domanda turbò Calvin.

— Quando mi sono svegliato, le sapevo e basta.

— Ripeti un po’?

— Lo sapevo. La prima volta che l’ho visto mi sono messo a parlargli. È molto semplice. Lui parlava, io capivo.

A Cirocco sembrava tutt’altro che semplice, ma evidentemente Calvin non voleva approfondire l’argomento.

Finefischio impiegò circa un’ora a mettersi in posizione, poi ad avvicinarsi col muso quasi sino all’orlo del precipizio. Durante tutta l’operazione Gaby e Cirocco si tirarono indietro. Cominciarono a sentirsi un po’ meglio quando videro la sua bocca: un’apertura di un metro, ridicolmente piccola per una creatura di quelle dimensioni, posta un venti metri sotto l’occhio più esterno. Dietro la bocca c’era un altro organo: uno sfintere che serviva per fischiare e per regolare la pressione interna.

Dalla bocca si protese un oggetto lungo, rigido; toccò terra.

— Forza — disse Calvin, chiamandole. — A bordo.

Gaby e Cirocco restarono a fissarlo, indecise. Lui parve irritato per un attimo, poi sorrise di nuovo.

— Penso che vi sia difficile crederlo, ma è vero. So tutto di questa creatura. Ho già fatto un viaggio. È contento di prenderci su; va dalla nostra parte. E non c’è pericolo. Mangia solo piante, in quantità alquanto scarse. Non può mangiare troppo, altrimenti precipita. — Calvin mise un piede sull’oggetto lungo e s’incamminò verso l’entrata.

— Cos’è quella roba? — chiese Gaby.

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