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La bestia tossì, rabbrividì, cadde di fianco, restò immobile. Non successe più niente.

Gaby gli si avvicinò, lo scosse con un piede. Non successe nulla, così lei gli si inginocchiò accanto. Non era più grande di un daino. Cirocco si sentiva vagamente disgustata, Gaby era senza fiato.

— Pensi che sia morto?

— Direi di sì. Però dovremo accertarcene.

— Per me va bene.

Gaby si passò una mano sulla fronte, poi colpì di nuovo la testa della creatura con la pietra, finché non ne uscì un sangue rosso. Cirocco rabbrividì. Gaby si pulì le mani sulle cosce.

— Se vai a prendere un po’ di quei pezzi di legna, dovrei riuscire ad accendere un fuoco.

— E come farai?

— Non ti preoccupare. Portami la legna.

Cirocco si riempì di legna le braccia. Poi, improvvisamente, si fermò a chiedersi da quando paby aveva cominciato a dare ordini.

— Be’, in teoria doveva funzionare — disse Gaby, depressa.

Cirocco diede un altro morso a quella carne che non voleva staccarsi dall’osso.

Gaby si era data da fare per un’ora intera con un pezzo della sua tuta e con quella che sperava fosse una pietra focaia. Avevano tutti gli ingrendienti indispensabili per il fuoco; ma la scintilla non scoccava.

In quell’ora, Cirocco aveva cambiato idea. Prima ancora che Gaby interrompesse i tentativi per accendere il fuoco, aveva capito di essere disposta a mangiare la carne cruda, e più che volentieri.

— Questo animale non aveva predatori — disse Cirocco a bocca piena. La carne era meglio di quanto si aspettasse, ma un po’ di sale non avrebbe guastato.

— Sembrava proprio di no — convenne Gaby. S’accoccolò dall’altro lato della carcassa e lasciò vagare lo sguardo oltre la spalla di Cirocco. Anche lei stava guardando nella stessa direzione.

— Forse non esistono predatori abbastanza grandi da darci preoccupazioni.

Il pranzo richiese un sacco di tempo perché non era facile masticare la carne cruda. Così, studiarono la carcassa dell’animale. Sembrava molto normale agli occhi poco addestrati di Cirocco. Chissà cosa ne avrebbe pensato Calvin. Carne, epidermide, ossa e pelo avevano colore e consistenza normali, e neppure il sapore era insolito. C’erano organi che Cirocco non riuscì a identificare.

— La pelle dovrebbe servire a qualcosa — disse Gaby. — Potremmo usarla per farci dei vestiti.

Cirocco arricciò il naso. — Usala pure tu, se vuoi. Tra un po’ puzzerà. E poi, qui fa caldo.

Presero un osso della gamba da usare come arma. Cirocco spolpò la carcassa di una buona porzione di carne. Gaby si costruì una cintura con la pelle dell’animale e vi appese i resti della sua tuta. Poi ripresero a camminare.

Videro altre creature simili a quella che avevano uccisa, sole o in gruppi di tre o sei. C’erano altri animali che salivano su e giù per i tronchi degli alberi a una velocità tale che era quasi impossibile vederli, e altri ancora che se ne stavano fermi ai margini del corso d’acqua. Tutti si lasciavano avvicinare facilmente. Esaminarono gli animali degli alberi, scoprirono che sembravano senza testa. Erano sfere blu di pelo corto, con sei zampe che spuntavano qua e là, e riuscivano a correre in tutte le direzioni. La bocca si trovava sotto il corpo, al centro di una miriade di zampe.

Il paesaggio cominciò a cambiare. C’erano sempre più animali, e altri tipi di piante. Il fogliame rendeva verdastra la luce. Centomila passi equivalevano a una giornata di ventiquattro ore. Sfortunatamente, persero subito il conto.

I tipi d’albero divennero centinaia, e fra loro si stendevano cespugli, piante rampicanti, vegetali parassiti. Le uniche due costanti erano date dal torrente, e dagli alberi di Temi. Ognuno di essi avrebbe meritato una targa e di essere inserito nel giro turistico del Parco nazionale delle sequoie.

Svanì anche il silenzio che aveva accompagnato il primo giorno del loro viaggio: adesso la foresta gemeva, urlava, abbaiava. E la carne era sempre migliore.

Mangiavano appoggiate al tronco di un albero troppo caldo, con la corteccia morbida e radici che creavano nel terreno rigonfiamenti più alti d’una casa. Le foglie si perdevano contro il cielo.

— Mi sa che c’è più vita su questi alberi che al suolo — disse Cirocco.

— Guarda lì — disse Gaby. — Qualcuno ha intrecciato quei rampicanti. Sgocciolano acqua.

— Già. E come faremo a riconoscere una forma di vita intelligente, se ci fosse? Vedi, all’inizio io volevo impedirti di uccidere quell’animale proprio per questo motivo. Ormai sappiamo che sono inoffensivi. Perché non proviamo a parlare con loro?

— Ma sono stupidi, non hanno nemmeno il cervello di una mucca. L’hai visto coi tuoi occhi. Comunque hai ragione. Sarebbe davvero orribile mangiare una creatura che sa parlare. Ehi, che cos’era?

D’improvviso, tutti i rumori erano scomparsi. Solo il rumore dell’acqua e i sibili delle foglie rompevano il silenzio. Poi, in un crescendo così impercettibile da durare minuti, nacque il grande gemito.

Dio potrebbe gemere a quel modo, se avesse perso tutto quello che ama e se possedesse una gola come la canna di un organo lunga chilometri. Il gemito continuò a crescere su un’unica nota, senza uscire dalla soglia più bassa dell’udito umano. Ma lo si sentiva nelle viscere, dietro gli occhi.

Sembrava già che riempisse l’universo, eppure continuava a crescere. Sembrava che violoncelli e bassi elettrici si fossero uniti al gemito. Al di sopra di quel complesso tessuto musicale c’erano sibili supersonici. Il tutto divenne sempre più forte, anche se sembrava impossibile che potesse succedere.

Cirocco pensò che le stesse esplodendo il cranio. Era a malapena consapevole del fatto che Gaby la stringeva a sé. Vennero sommerse da un mucchio di foglie morte che cadevano dall’alto, poi ci fu una pioggia di piccoli animali che correvano via da tutte le parti. Anche il suolo si mise a urlare, come se il pianeta volesse spezzarsi in due.

Sopra di loro ci fu uno schianto. Un vento improvviso raggiunse la foresta, si portò via un gigantesco ramo. Gli alberi urlavano, gemevano, protestavano.

La violenza della natura raggiunse un certo livello e lì si stabilizzò. I venti dovevano avere una velocità di sessanta chilometri orari. Più in alto, doveva essere ancora peggio. Le due ragazze erano rannicchiate dietro le radici degli alberi e osservavano la tempesta tutt’attorno a loro. Cirocco dovette urlare per farsi sentire sotto quell’immane brontolio.

— Come credi che sia potuto arrivare così velocemente?

— Non so — gridò Gaby. — Un riscaldamento o un raffreddamento a livello locale, un cambiamento enorme nella pressione atmosferica. Però non capisco da cosa dipenda.

— Credo che il peggio sia passato. Ehi, stai battendo i denti.

— Sì, ma non ho più paura. Ho freddo.

Se n’era accorta anche Cirocco. La temperatura era scesa all’improvviso. Ormai dovevano essere a pochi gradi sopra zero. Si strinsero l’una all’altra, ma sembrava loro che il calore venisse succhiato via dalla schiena.

— Dobbiamo rifugiarci da qualche parte — urlò.

— Sì, ma dove?

Nessuna delle due voleva spostarsi da lì. Cercarono di coprirsi di terriccio e di foglie, ma il vento portò via tutto.

Quando ormai erano sicure che sarebbero morte congelate, il vento si fermò. Non diminuì; scomparve di colpo. Cirocco dovette spalancare e richiudere la bocca per riacquistare l’udito.

— Accidenti, che cambiamento di pressione. Mai sentito nulla di simile.

La foresta era di nuovo immersa nel silenzio. Poi Cirocco scoprì che riusciva ancora a percepire il fantasma di quel gemito spaventoso. Rabbrividì, e non per il freddo. Non aveva mai pensato a se stessa come a una donna con troppa immaginazione, ma quel gemito sembrava così umano, anche se su scala gigantesca. Faceva venire voglia di stendersi a terra e lasciarsi morire.

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