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— Sta’ zitto tu, — ribatté Haira con dignità. — Altrimenti ti bastoneremo a morte.

— Saul, — disse Anton. — La smetta. Non faccia il bambino…

— Sì, è stupido, — commentò Haira. — Ma ha una bella casacca.

Ma guarda, è proprio sicuro di averci in pugno, pensò Vadim. Vede già come ci denuderanno, come ci spingeranno nella conca, come dormiremo sul pavimento di terra coperto di feci, e staremo sempre zitti, e lui ci farà correre scalzi sulla neve e ci punzecchierà con la sua picca, e ci darà dei ceffoni per farci correre più in fretta.

E intorno a noi, uomini che pensano solo a se stessi, che sognano solo di infilare il dito in quel foro che metta in moto la macchina, e allora saranno aggiogati, felici e contenti, a una slitta che porteranno al di là dei colli nevosi, sollecitati dalla punta della picca, per raggiungere la libertà di cui si può godere ai piedi del trono della Grande Rupe… Vadim si morse il labbro con tanta violenza da vedere le stelle. Vorrei fargliela io la festa, pensò con odio. Era uno strano sentimento, l’odio. Lo riempiva di gelo e gli faceva tendere i muscoli. Non gli era mai capitato prima di odiare qualcuno. Sentì che alle sue spalle Saul sbuffava feroce e Haira miagolava una canzone.

In basso comparve la conca fangosa. Sul fondo erano sparse in disordine le macchine, divenute assurdi e barbari strumenti d’umiliazione e di morte. Era colpa degli alieni, pensò Vadim. Ma che cosa gli si poteva rimproverare? Non erano nemmeno umanoidi. Erano acqua del cielo… Marmellata…

Scese di quota e, frenando, seguì la strada fino alla casetta dei guardiani. Haira, riconosciuto il posto, proruppe in strilli di gioia che neppure il potente analizzatore riuscì a interpretare.

Davanti alla casetta c’era una folla. La neve luccicava nella luce verdastra dell’alba. Gli ex graziati, nudi e miserevoli, erano raccolti in gruppo nella neve, e aspettavano a capo chino. Intorno a loro, appoggiati alle picche, a gambe larghe, stavano i guardiani in pelliccia. Sulla veranda torreggiava il portatore di ottima spada. Teneva l’ottima spada vicino all’orecchio e faceva scorrere il polli. ce sul filo della lama. Quando si accorse del bioplano che scendeva, restò immobile, con la bocca spalancata.

Vadim fece atterrare il bioplano proprio davanti alla veranda. Aprì l’oblò e gridò:

— Kaira-me sorinata-mu! Tatimata-ne kori-su!

Abbandonò il posto di pilotaggio, prese Haira per la vita e lo mise in piedi sui gradini della veranda. Il capo abbassò la spada e chiuse la bocca con uno scatto secco. Haira curvò la schiena e gli si accostò rapidamente a piccoli passi.

— Com’è che non ti hanno ancora ammazzato? — chiese il capo stupito.

Haira incrociò le braccia sui petto e tubò in risposta:

— È avvenuto quel che doveva avvenire! Ho raccontato loro della grandezza e della potenza della Grande Rupe, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel Cielo e che vivrà quanto le macchine, ed essi si sono bagnati addosso per la paura. Mi hanno nutrito con un cibo gustoso e mi hanno parlato come dei sottoposti e sono venuti qui per inchinarsi al tuo cospetto.

I portatori di lancia si erano rispettosamente raccolti presso la veranda. Soltanto i condannati nudi non si erano mossi, aspettando rassegnati l’esecuzione. Il comandante rinfoderò la spada con pomposa lentezza. Non guardò più il bioplano. Si mise ad interrogare Haira in tono calmo e indifferente.

— Dove vivono?

— Hanno una grande casa nella pianura. Molto calda.

— Dove hanno preso questa macchina?

— Non so. Probabilmente sulla strada.

— Dovevi dirgli che tutto il cielo e tutta la terra appartengono alla Grande Rupe Potente.

— Gliel’ho detto. Ma le scarpe, una giubba e una cassa lucente appartengono a me. Non lo dimenticare poi, mio glorioso e forte.

— Sei uno stupido, — disse il capo con disprezzo. — Tutto appartiene alla Grande Rupe Potente. E tu avrai solo quello che ti spetterà. Dov’è il messaggio?

— Me l’hanno preso, — disse Haira, deluso.

— Due volte stupido. Questo ti costerà la pelle.

Haira si rabbuiò. Il capo lanciò un’occhiata vaga nello spazio fra Vadim ed Anton e disse:

— Che mostrino le scarpe.

Saul ringhiò e fece per uscire dal bioplano.

— Calma, calma, — disse Anton.

Il capo si soffiò melanconicamente il naso con le dita.

— E che cibo hai mangiato? — chiese.

— Marmellata. Cioè una specie di marmellata. È dolce e rallegra il palato.

Il capo parve riaflimarsi un poco.

— E ne hanno molta di questa roba?

— Moltissima! — gridò con entusiasmo Haira. — Però non farmi battere.

— Ho deciso, — disse il capo. — Che tornino a casa e mi portino tutta la marmellata e tutto il cibo che hanno. Non hanno carbone?

Haira guardò interrogativo Anton. Anton disse brusco:

— Esigi la libertà di quei condannati!

— Che dice? — chiese il capo.

— Chiede di non uccidere quei delinquenti.

— E come fai a capire quello che dice?

Haira indicò con entrambe le mani i cristalli mnemonici sulle sue tempie.

— Se ci si appoggia queste cose alla testa, si capisce il linguaggio degli altri come se fosse il proprio.

— Dammele, — ordinò il capo. — Anche queste sono proprietà della Grande Rupe Potente.

Tolse i cristalli ad Haira e dopo qualche tentativo infruttuoso riuscì ad applicarseli alla fronte. Anton disse subito:

— Lascia immediatamente liberi questi uomini che hanno meritato la libertà.

Il capo lo guardò stupito.

— Non puoi parlare così, — disse. — Ti perdono perché sei un plebeo e non conosci la mia lingua. Ora va’ a prendere tutto e ricordati di portare anche la lettera ed il disegno. — Si voltò verso i portatori di picche che l’ascoltavano con rispetto e urlò: — Che cosa volete voi qui, necrofili? Volete annusare le loro brache? Le brache di tutti quelli che parlano con me puzzano nello stesso modo! Andate a lavorare! Portate questa marmaglia nella conca. Via! Via!

I portatori di picche corsero via ridacchiando. Gli ex liberati, sospinti da loro, li precedevano lungo la strada. Il capo appioppò ad Haira un manrovescio che voleva essere amichevole e gli ordinò di levarsi di torno. Haira barcollò sotto il colpo e si precipitò a casa. Rimasto solo, il capo volse lo sguardo prima al cielo poi alle baracche, sbadigliò a lungo e rumorosamente, lanciò un’occhiata al bioplano, sputò a terra, e disse con voce annoiata, guardando altrove:

— Fate come vi ho detto. Tornate a casa e portatemi qui tutta la marmellata e gli altri cibi e andate nella conca, se volete restare vivi.

Vadim guardava quell’enorme corpo sudicio e provava una strana debolezza in tutte le membra. Si sentiva come se stesse tentando di scalare in sogno una ripida parete scivolosa. Anton gli mormorò ad un orecchio:

— Sta’ attento, Dimka. Non è un ragazzino come Haira.

— Non resisto più, — disse Saul con una strana voce incolore.

— Adesso lo strozzo.

— Glielo proibisco assolutamente, — disse Anton.

Il capo gridò, rivolgendosi verso la porta aperta:

— Arrostiscimi la carne, Haira, necrofio! E scaldami il letto! Oggi sono di buon umore. — Poi si volse di profilo rispetto al bioplano, alzò l’indice sporco e si mise a dire, guardando verso le montagne: — Adesso siete ancora istupiditi e impietriti per la paura. Però dovete sapere che in futuro, quando parlerete con me, sarete tenuti a inchinarvi e a premervi le palme delle mani sul petto. E non mi dovete guardare, perché siete plebei ed il vostro sguardo è immondo. Oggi vi perdono, ma un’altra volta vi farò bastonare. E un’altra cosa dovete tenere bene in mente, che le massime virtù sono l’obbedienza ed il silenzio. — Si infilò l’indice in bocca e cominciò a stuzzicarsi un dente. Il suo discorso divenne quasi incomprensibile. — Quando tornerete con la marmellata, il messaggio ed il disegno, vi svestirete e lascerete tutto sulla veranda. Io non verrò fuori. Poi andrete nelle baracche a prendere un camiciotto ai morti. Ne potete prendere solo uno a testa. — Sghignazzò all’improvviso. — Con due sudereste, quando siete al lavoro. Se volete, potete anche spogliare i vivi, ma solo quelli che hanno le unghie dorate…

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