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— Finito, — disse Vadim. — Non c’è più il suo bisturi. Però il Colibrì ora è carico. Ha almeno trenta ore di carica ininterrotta.

Il vicino girò intorno all’elicottero, toccandorie inutilmente le varie parti. Vadim scoppiò a ridere e se ne tornò a tavola. Stava mangiando il secondo panino e bevendo il secondo bicchiere di yogurt, quando scattò l’accensione della segreteria automatica e una voce calma e tranquilla disse:

— Non ci sono state né chiamate né visite. Anton, andando in città, augura buon giorno e propone di cominciare subito dopo colazione a staccarsi da tutto ciò che è terrestre. In istituto sono arrivati nove nuovi problemi…

— Non voglio particolari, — disse Vadim.

— … Il problema numero diciannove non è stato ancora risolto. Paula Mincin ha dimostrato il teorema per cui si può effettuare una operazione polinominale sul campo Q di strutture di Simonian. Indirizzo: Richmond, diciassette-diciassette-sette. Tutto.

La segreteria automatica scattò, fece una lunga pausa e aggiunse un ammonimento:

— È sciocco essere invidiosi! È sciocco essere invidiosi!

— Scema! — ribatté Vadim. — Non sono affatto invidioso. Mi fa piacere! Brava, Paula! — Si fece pensieroso e guardò in giardino.

— No, — disse. — Finiamola! Bisogna staccarsi da tutto ciò che è terrestre.

Buttò le stoviglie sporche nel condotto per l’immondizia e gridò:

— Facciamo fuori i Tachorg! Decoriamo lo studio di Paula Mincin — Richmond, diciassette-diciassette-sette — con il teschio di un Tachorg!

E si mise a cantare:

I Tachorg di paura ululano,
squittiscono e mugolano!
Entra contro di loro in pista,
il linguista superstrutturalista!

— Allora, — disse Vadim. — Dov’è il radiofono? — Fece un numero. — Anton, come va?

— Sto facendo la fila, — rispose Anton.

— Cosa dici? E vanno tutti su Pandora?

— Molti. Qualcuno ha messo in giro la voce che la caccia ai Tachorg presto sarà proibita.

— Ma noi ce la faremo?

Anton tacque per un po’.

— Ce la faremo, — disse.

— E ragazze lì vicino non ce ne sono?

— Certo che ce ne sono…

— E ce la faranno anche loro?

— Aspetta che chiedo… Dicono di sì.

— Salutate da parte di un amico linguista strutturale, alto sei piedi, di bell’aspetto… Ascolta, Anton, cosa volevo dirti? Ah, si! Porta, per favore, un bisturi per lo zio Saša. E una coppia di BE-6. E già che ci sei di BE-7.

— E già che ci sei un elicottero nuovo, — disse Anton. — Ma che ne ha fatto il vecchio del suo bisturi?

— E tu cosa pensi che si possa fare con un bisturi?

— Non so, — disse Anton pensieroso. — È una cosa che dura in eterno. Come la piattaforma di Baalbek.

— L’ha fatto cadere nello stomaco del suo Colibrì.

Al radiofono si sentirono varie voci ridacchiare. La fila si stava divertendo.

— Va bene, — disse Anton. — Aspettami, torno presto. Fammi da supermagazziniere e comincia a caricare la roba.

Vadim si mise il radiofono in tasca e calcolò a occhio la lunghezza delle tre stanze che lo separavano dall’uscita.

— Lo spirito delle gambe è debole, — declamò, — la potenza delle braccia è grande!

Si rizzò sulle braccia e corse allegro fino all’uscita. Sulla veranda fece un salto mortale e gridando «U-uch!» cadde carponi sull’erba davanti alla veranda. Si alzò in piedi, si pulì le mani e canticchiò con entusiasmo:

In guerra e in duello,
per il primo premio in lista
si presenta sul più bello
il linguista superstrutturalista.

Poi si avviò lentamente per il viale, dove stavano ammucchiati casse e fagotti. C’era parecchio da caricare. Bisognava infatti portarsi armi, munizioni, vettovaglie, vestiti per la caccia e per poter andare al famoso caffè «Il Cacciatore», sulla cima piatta dell’Everina, dove fra i tavolini soffia un vento profumato e in fondo al burrone, a una profondità di trecento metri, si ammucchiano, simili a nubi minacciose, impenetrabii sterpi neri; dove i cacciatori, sferzati a sangue dalle spine, si scalano con una risata le borracce panciute piene di Sangue di Tachorg e si slogano le spalle nell’inutile tentativo di mostrare quali trofei si sarebbero procurati, se solo fossero riusciti a capire come si impugna il fucile; dove nel crepuscolo verde scuro le coppie ballano fiaccamente al suono del «ritmo luminoso» mentre, sopra la Catena degli Audaci, si alzano nel cielo senza stelle le piccole lune piatte di Pandora.

Vadim si accoccolò con la schiena contro la cassa più pesante, si sistemò e con uno scatto se la caricò di slancio sulle spalle. Nella cassa c’erano armi, tre carabine automatiche con mirini antinebbia e seicento pallottole in piatte custodie di plastica. Con passo elastico Vadim portò la cassa attraverso il giardino fino alla navicella. Andò dalla parte dell’abitacolo e con il piede diede un calcio all’oblò. La membrana che copriva il portello ovale si ruppe, e Vadim fece cadere la cassa in un’oscurità che odorava di freddo.

Vadim tornò indietro, passando fece cadere dai cespugli le enormi bacche di un ibrido. E ogni cespuglio gli lanciava contro grossi spruzzi di pioggia fredda.

Bisogna abbattere non meno di cinque Tachorg, pensava. Un teschio per Paula Minčin di Richmond. Perché sappia che sono un bravo ragazzo. Un teschio per la mamma. La mamma il teschio non lo vorrà, è una persona seria, e allora lo regalerò alla prima ragazza che mi passerà davanti all’angolo fra la Prospettiva Nevskij e la Via Sadovaja, alle dieci del mattino. Il terzo teschio lo butterò in faccia a Samson per moderare il suo scetticismo: si è comportato in modo strano da Nelly, quando le raccontavo dell’ultima spedizione su Pandora. Il quarto teschio è per Nelly, perché creda a me e non a Samson. Il quinto teschio lo voglio appendere sopra lo stereovisore.

Vadim immaginò con piacere come sarebbe stata bene la bella annunciatrice sotto il teschio ghignante del mostro.

Portò sulla navicella quattro grandi casse di carne fresca, otto casse di frutta e verdura, due balle di vestiti, e ancora una grande cassa contenente regali per gli indigeni, con la scritta «Doni per i Pandoriani».

Chissà dove, dietro le nuvole, il sole saliva sempre piti in alto. Cominciava a far caldo e tutto, intorno, si asciugava. Le rane si nascondevano nell’erba. Nei cottage vuoti le pareti si spalancavano con un fruscio. Lo zio Saša appese l’amaca e si sdraiò con il giornale in mano accanto al suo Colibrì. Vadim finì di caricare le casse e si sistemò accanto a un cespuglio di uvaspina.

— E cosi, partite, — disse lo zio Saša.

— Uhu.

— Volate su Pandora?

— Aha.

— Qui scrivono che chiuderanno la riserva di caccia. Per alcuni anni.

— Non fa niente, zio Saša, — disse Vadim. — Noi facciamo ancora in tempo.

Lo zio Saša tacque e poi aggiunse piano:

— Mi annoierò molto qui da solo.

Vadim smise di sbadigliare.

— Ma noi torniamo, zio Saša! Fra un mese.

— È lo stesso. Questo mese me ne torno in città. Cosa sto a fare qui da solo con cinque cottage? — guardò l’elicottero. — Con questo scemotto. Più morto che vivo.

Dal cielo giunse un sottile ronzio.

— Eccone un altro che vola, — disse lo zio Saša.

Vadim alzò la testa. A quota bassa sopra il villaggio un Ramforinch rosso vivo disegnava lentamente un otto. Sulla chiglia sottile si stagliava nettamente un numero bianco.

— Così sono buono pure io, — disse lo zio Saša. — E tu, carino mio, scendi in picchiata a spirale, e non dilato, e non finire dentro il laghetto, ma vicino…

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