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— La ritiro, — disse Sua Eccellenza.

Bromberg riprese ad asciugarsi il sudore.

— Non ho segreti, — annunciò. — Lei sa, Rudolf, quanto io odi i segreti, di qualsiasi tipo. È stato lei a mettermi in condizione di dover fare storie e recitare la commedia. Ma invece è tutto molto semplice. Stamattina è venuta da me una persona… Le occorre sapere il nome?

— No.

— Un giovanotto. Di che cosa abbiamo parlato, secondo me, non ha importanza. Si è trattato di una conversazione piuttosto privata. Ma mentre parlavamo ho notato che proprio qui… — Bromberg indicò con il dito la piegatura del gomito del braccio destro — aveva un neo piuttosto strano. Gli ho persino chiesto: «Che cos’è, un tatuaggio?». Lei sa, Rudolf, che i tatuaggi sono il mio hobby… «No, — mi ha risposto. — È un neo». Assomigliava più di tutto alla lettera «Ž» in cirillico oppure al geroglifico giapponese “sandzju”, “trenta”. Non le ricorda niente, Rudolf?

— Mi ricorda, — rispose Sua Eccellenza.

Anche a me ricordava qualcosa, qualcosa di recente, qualcosa che mi era sembrato allo stesso tempo strano e poco importante.

— Lei ha capito subito? — chiese con invidia Bromberg.

— Sì, — ammise Sua Eccellenza.

— Invece io non ho capito subito. Il giovanotto se n’era andato da un pezzo e io rimanevo ancora seduto a cercare di ricordare dove avevo potuto vedere quel segno… Non semplicemente uno che gli assomigliasse, ma proprio quello, con precisione. Alla fine riuscii a ricordare. Dovevo però controllare, capisce? Sotto mano non avevo nemmeno una riproduzione. Mi sono precipitato al museo, ma il museo era chiuso…

— Mak, — disse Sua Eccellenza, — sii gentile, dacci quella cosa che sta sotto la sciarpa.

Ubbidii.

La travicella era pesante e calda al tatto. La misi sul tavolo davanti a Sua Eccellenza che l’avvicinò a sé. Vidi che era effettivamente un astuccio di un materiale lucido di color ambra chiara con una linea dritta ideale appena visibile, che separava il coperchio sporgente dal corpo massiccio. Sua Eccellenza cercò di sollevare il coperchio, ma gli scivolarono le dita e non ci riuscì.

— Qua, — disse impaziente Bromberg. Allontanò Sua Eccellenza, afferrò il coperchio con entrambe le mani, lo sollevò e lo posò da una parte.

Quelle cose, evidentemente, erano i cosiddetti detonatori: dischetti grigi, dal diametro di settanta millimetri, posti uno accanto all’altro, ordinatamente, nelle nicchie. In tutto i detonatori erano undici; c’erano anche due nicchie vuote, e si vedeva che il fondo era coperto di pelo biancastro, simile a muffa, e i peli si muovevano in modo percettibile, come se fossero vivi, si, e probabilmente erano vivi, in un certo senso.

Tuttavia quello che soprattutto mi colpì furono degli strani geroglifici, raffigurati sulla superficie dei detonatori, uno su ciascuno e tutti diversi. Erano grandi, di un rosa-marrone, si distinguevano appena, come se fossero stati tracciati con dell’inchiostro di china colorato su carta umida. E uno lo riconobbi subito: si trattava di una lettera «Ž» stilizzata, oppure del geroglifico giapponese “sandzju”, il piccolo originale della copia ingrandita sull’altro lato del foglio n. 1 nella pratica n. 07. Questo detonatore era il terzo da sinistra, se si partiva dalla mia parte, e Sua Eccellenza, indicandolo con il suo lungo indice, chiese:

— E questo?

— Sì, sì, — rispose impaziente Bromberg, scostandogli la mano. — Non disturbi. Lei non capisce niente…

Infilò le unghie lungo i bordi del detonatore e cercò, con dei movimenti cauti, di tirarlo fuori dalla sua nicchia, borbottando nel frattempo: «Non si tratta affatto di questo… Non penserà mica che sia stato capace di scambiare… Che sciocchezza…». Alla fine riuscì a tirar fuori il detonatore dalla nicchia e cominciò a sollevarlo cautamente al di sopra dell’astuccio, sempre più in alto, e si potevano vedere i fili sottili e biancastri allungarsi verso il dischetto grigio, diventare via via più sottili, e spezzarsi uno dopo l’altro. E quando l’ultimo si ruppe, Bromberg girò il disco con il lato inferiore verso l’alto, e vidi fra i peli che si muovevano in trasparenza quello stesso geroglifico, ma nero, piccolo e molto chiaro, come se l’avessero inciso su del materiale grigio.

— Sì! — disse Bromberg trionfante. — Proprio questo. Lo sapevo che non potevo essermi sbagliato.

— In che cosa, precisamente? — chiese Sua Eccellenza.

— La misura! — rispose Bromberg. — La misura, i particolari, le proporzioni. Capisce, non aveva semplicemente un neo somigliante a questo segno; era esattamente questo… — Guardò fisso Sua Eccellenza. — Senta, Rudolf, favore per favore. Ma lei li ha segnati tutti?

— No, naturalmente.

— Allora, vuol dire che ce li avevano fin dall’inizio? — chiese Bromberg, battendosi col dito sulla piegatura del braccio destro.

— No. Questi segni compaiono all’età di dieci-dodici anni.

Bromberg depose di nuovo il detonatore con cura nella sua nicchia e si sprofondò soddisfatto in poltrona.

— Eh sì, — borbottò, — proprio così avevo capito… Allora, signor capo della polizia, a che serve tutta questa sua segretezza? Ho il mio canale, e non appena Febo dalle dita d’oro illuminerà la cima di questi suoi mostri architettonici, mi metterò immediatamente in contatto con lui, e parleremo a sazietà… E non cerchi di farmi cambiare idea, Sikorski! — gridò, agitando il dito sotto il naso di Sua Eccellenza. — È venuto lui da me, e io, da solo, capisce? Da solo, con questa mia vecchia testa, ho capito chi avevo davanti, ed ora è mio! Non mi sono intrufolato nei suoi luridi segreti! Un po’ di fortuna, un po’ di intelligenza…

— Va bene, va bene, — disse Sua Eccellenza. — Per l’amor di Dio. Niente obiezioni. È suo, incontratevi, parlate. Ma solo con lui, per favore, e con nessun altro.

— Guarda, guarda… — fece Bromberg con ironica perplessità.

— E per il resto, come vuole lei, — disse all’improvviso Sua Eccellenza, — Tutto questo ora non ha importanza… Dica, Isaak, di che cosa avete parlato?

Bromberg incrociò le mani sullo stomaco e girò le grosse dita. La vittoria che aveva riportato su Sua Eccellenza era talmente grande ed evidente, che lui, senza dubbio, si poteva permettere di essere generoso.

— La nostra conversazione, devo confessare, è stata piuttosto confusa, — disse. — Ora, certo, capisco che quel Cro-Magnon mi ha preso per il naso, mi voleva solo far scervellare…

Stamane o, più esattamente, ieri mattina, era andato da lui un uomo dell’età di circa quaranta~quarantacinque anni e si era presentato come Aleksandr Dymok, configuratore di automi per l’agricoltura. Altezza media, faccia molto pallida, lunghi capelli neri, lisci come quelli di un indiano. Si era lamentato perché già da molti mesi cercava di chiarire, senza riuscirci, le circostanze in cui erano scomparsi i suoi genitori Aveva raccontato a Bromberg una storia molto misteriosa, e perciò dannatamente interessante, che era riuscito a mettere insieme a poco a poco, senza tralasciare nemmeno le voci più inverosimili. Bromberg si era scritto tutti i particolari, ma ora raccontarla tutta non aveva senso. In breve, la visita di Aleksandr Dymok aveva un unico scopo: per caso non poteva Bromberg, il più importante conoscitore al mondo di segreti scientifici, gettare una luce sulla sua storia?

Il grande esperto Bromberg aveva controllato il suo archivio, ma non aveva trovato nulla sui coniugi Dymok. Il giovane si era mostrato deluso dalla circostanza e stava per andarsene quando gli venne in mente un’idea. Non si poteva escludere, disse, che il cognome dei suoi genitori non fosse affatto Dymok. Non si poteva nemmeno escludere che tutta la sua storia non avesse niente a che fare con la realtà. Forse, il dottor Bromberg poteva sforzarsi di ricordare se qualcosa di misterioso, e quindi di ignoto ai più, fosse avvenuto negli anni vicini alla data di nascita di Aleksandr Dymok (11 febbraio dell’anno 36), in quanto aveva perso i genitori all’età di uno o due anni.

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