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— No, — rispondo. — Non ti so portare dalla mamma. Sono straniero qui e anch’io vorrei incontrare delle brave persone.

— Peccato, — dice Ijadrudan.

Arriviamo in piazza. L’obiettivo “Macchia-96” da vicino assomiglia ad una gigantesca, antica scatola di cristallo azzurro in tutto il suo barbaro splendore, che luccica di pietre preziose e di pietre dure. Una luce uniforme di colore bianco-azzurro proviene dal suo interno e rischiara l’asfalto screpolato, dove fra le crepe sono spuntate nere erbacce, e le facciate morte delle case che circondano la piazza. Le pareti di questo straordinario edificio sono del tutto trasparenti, e all’interno brilla e si rimescola l’allegro caos del rosso, dell’oro, del verde, del giallo, tanto che non ti accorgi subito della grande porta spalancata che invita a entrare, a cui conducono alcuni bassi gradini…

— Giocattoli!… — mormora con venerazione Pritulatan e comincia a dimenarsi, scivolando giù dalle mie spalle.

Solo allora mi accorgo che la scatola è piena non di pietre preziose ma di giocattoli multicolori, centinaia e migliaia di giocattoli coloratissimi, di pessimo gusto: enormi bambole dipinte a colori vivaci, mostruose automobiline di legno e un’enorme quantità di minutaglia colorata, che è difficile distinguere a questa distanza.

Il piccolo Pritulatan comincia subito a pregare e a fare la lagna, per entrare in quella casa incantata: «Non vuol dire niente che papà l’ha proibito, entriamo solo per un minuto, ecco prendiamo quel camion e poi ci mettiamo ad aspettare le brave persone…». Ijadrudan cerca di interromperlo, dapprima con le parole, e poi, quando si accorge che non serve, torcendogli un orecchio, e alla fine non si capisce più quello che dice. Il traduttore getta con indifferenza nello spazio che ci circonda un sacco intero di «serpenti dalle orecchie di topo», a bordo da Vanderchuze fanno baccano, esigono che ritorni la calma, e all’improvviso tutti, compreso il bravo Pritulatan, si azzittano.

Dall’angolo più vicino appare all’improvviso l’aborigeno armato di prima. Camminando piano e silenziosamente sugli sprazzi azzurri, tenendo la mano sul fucile, che gli pende a tracolla, si dirige proprio verso i bambini. Non guarda nemmeno me e Ščekn. Prende saldamente per la mano sinistra Pritulatan che si è acquietato, e il raggiante Ijadrudan per la destra, e li conduce, attraverso la piazza, dritti fino all’edificio luminoso: alla mamma, al papà, all’infinita possibilità di sparare quanto si vuole.

Li seguo con lo sguardo. Pare che tutto vada come deve andare, ma allo stesso tempo c’è un particolare, un dettaglio insignificante che rovina il quadro. Un piccolo punto oscuro…

— L’hai riconosciuto? — chiede Ščekn.

— Che cosa? — rispondo irritato, perché non riesco a liberarmi da questo invisibile bruscolino che mi rovina tutto l’effetto.

— Spegni la luce in quell’edificio e spara una decina di cannonate…

Quasi non lo sento. All’improvviso ho capito cos’è questo bruscolino. L’aborigeno si allontana, tenendo i bambini per mano, e vedo il fucile che oscilla sul suo petto, al ritmo dei suoi passi, come se fosse un pendolo. Destra, sinistra… Non può oscillare così. Non può ondeggiare così facilmente di qua e di là un grosso fucile, che non pesa meno di otto chili. Così può oscillare solo un fucile giocattolo, di legno o di plastica. Quel “brav’uomo” non ha un fucile vero…

Non faccio in tempo a finire il mio pensiero. L’aborigeno ha un fucile giocattolo. Gli aborigeni tirano di precisione. Forse è un fucile giocattolo che proviene dal padiglione… Spegni la luce in quel padiglione e spara con il cannone… È proprio un padiglione così… No, non faccio in tempo a finire nessuno di questi pensieri.

Da sinistra cadono giù mattoni, con un crepitio frana sul marciapiede una cornice di legno. Dall’orribile facciata di una casa a sei piani, la terza dall’angolo, sottosopra, di traverso, dalle nere orbite delle finestre scivola una grande ombra gialla, scivola così leggera, così impalpabile, che non si può credere che dietro di lei franeranno dalla facciata lastre di intonaco e frammenti di mattoni. Vanderchuze grida in modo terribile, a due voci strillano sulla piazza i bambini, ma l’ombra è già sull’asfalto, pure essa impalpabile, semitrasparente, enorme. Il folle movimento di una decina di zampe quasi non si distingue, e in questo guizzare si oscura, gonfiandosi e cadendo, un lungo corpo articolato, davanti a sé, in alto, le chele prensili, su cui sta un immobile sprazzo di luce laccato…

Mi accorgo di avere in mano lo skorcer, il revolver disintegratore. Passo al telemetro automatico, preoccupato solo di misurare la distanza fra il granchio-ragno e le figurette infantili, che scappano di traverso per la piazza. (Da qualche parte c’è anche l’aborigeno con il suo fucile giocattolo, lui pure corre a tutta birra, rimanendo un po’ indietro rispetto ai bambini, ma non gli bado) La distanza diminuisce rapidamente, tutto è chiaro, e quando il granchio-ragno si trova sulla mia traiettoria, sparo.

In quel momento è a una distanza di venti metri. Non mi è capitato molto spesso di sparare con lo skorcer, e sono emozionato dal risultato. Il lampo rosso violetto mi acceca per un istante, ma faccio in tempo a vedere che il granchio-ragno esplode. In un attimo. Tutto intero, dalle chele fino alla punta delle zampe posteriori. Come una caldaia a vapore surriscaldata. Si sente un breve tuono, l’eco si riflette e rotola per la piazza, e al posto del mostro si gonfia una nube compatta, a vederla si direbbe dura, di vapore bianco.

Tutto è finito. La nuvola di vapore si scioglie con un fischio leggero, le grida di panico e il calpestio si smorzano in fondo a una stradina buia, mentre la preziosa scatoletta del padiglione, come se niente fosse stato, continua a splendere al centro della piazza nella sua barbara grandiosità…

— Lo sa il diavolo, che razza di bestiaccia sia, — borbotto. — Da dove è sbucata, a cento parsec[18] da Pandora? E tu di nuovo non hai fiutato niente?

Ščekn non fa in tempo a rispondere. Esplode un colpo di fucile, l’eco arriva fino alla piazza, e subito dopo il primo, un secondo. In un punto molto vicino. Si direbbe quasi da dietro l’angolo. Beh, è chiaro, da quella stradina, dove sono corsi tutti…

— Ščekn, tieniti sulla sinistra, non ti sporgere, — ordino correndo.

Non capisco che cosa sia successo in quella stradina. Probabilmente un altro granchio-ragno si è avventato sui bambini… Allora, il fucile non era giocattolo? E in questo istante dall’oscurità emergono e si fermano, sbarrandoci la strada, tre persone. E due di loro sono armate di fucili veri, e due canne sono puntate proprio contro di me.

Si vede tutto molto bene nella luce bianco-azzurra: un vecchio canuto di alta statura, con un’uniforme grigia dai bottoni scintillanti, e ai suoi fianchi, un po’ indietro, due vigorosi giovanotti con i fucili spianati, anche loro in uniforme grigia, e cartucciere in vita.

— Molto pericoloso… — sussurra Ščekn nella lingua dei Testoni. — Ripeto: molto pericoloso!

Rallento il passo e con un certo sforzo mi impongo di far sparire lo skorcer nella fondina. Mi fermo davanti al vecchio e chiedo:

— Cosa è successo ai bambini?

Le canne dei fucili sono puntate proprio contro il mio stomaco. Contro la pancia. I giovanotti hanno delle facce dure e spietate.

— I bambini sono al sicuro.

Ha gli occhi chiari e addirittura allegri. Non ha in volto quella pesante cupezza che hanno invece i giovanotti armati. Il viso è rugoso, tipico delle persone anziane, ma non privo di una certa dignità. Però, potrebbe essere solo un’impressione; forse invece del fucile ha in mano un bastone lucido e tornito con cui si dà dei leggeri colpetti sul gambale dell’alto stivale.

— A chi avete sparato?

— Ad una persona cattiva. — La radiotrasmittente traduce la risposta.

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18

Il parsec è un’unità di lunghezza usata in astronomia, significa “parallasse di un secondo d’arco”. Corrisponde a circa 3,26 anni luce. (Wikipedia)

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