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Il suo ingresso non destò la minima sensazione. Ma quando alcuni dei presenti notarono quanto fosse giovane, e videro l’emblema del Drago sulle maniche della sua uniforme, lo seguirono con lo sguardo. Lui andò a riempirsi un vassoio al distributore automatico, e nel sedersi a un tavolo libero s’accorse che le conversazioni in sala erano cessate. Cominciò a mangiare, lentamente e con cura, fingendo di non rendersi conto degli occhi puntati su di lui. Pian piano le chiacchiere e i rumori normali ripresero, e soltanto allora poté rilassarsi e girare attorno qualche rapido sguardo.

Una delle pareti era occupata per intero da un grande schermo, su cui il computer proiettava classifiche e dati di vario genere. I soldati erano tenuti al corrente delle prestazioni delle orde, mentre qui c’erano graduatorie relative a quelle dei singoli comandanti.

E di nuovo, grazie agli scherzi delle percentuali, Ender risultava in testa con un 100% di vittorie, mentre il suo distacco era ancor maggiore in altre categorie: media dei superstiti sani/disabilitati, media degli avversari congelati, tempo medio per ottenere una vittoria, e media delle perdite per battaglia.

Aveva quasi finito di mangiare quando una mano gli si poggiò su una spalla. — Posso sedermi?

Ender non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere Dink Meeker. — Ehi, Dink! — si compiacque. — Certo, accomodati.

— Allora, bastardo placcato d’oro — disse allegramente l’altro. — Qui stiamo tutti cercando di decidere se i tuoi punteggi sono un miracolo o un maledetto imbroglio.

— Un’abitudine — disse Ender.

— Una vittoria non è un’abitudine — lo rimbrottò Dink. — Non montarti la testa. Quando sei nuovo ti mettono contro squadre materasso.

— Carn Carby non è precisamente un materasso. — Era vero. Carby si trovava presso il centro delle graduatorie.

— Lui è in gamba — disse Dink, — considerando la sua scarsa esperienza di comando, è una promessa. Tu non sei una promessa. Sei una minaccia.

— Minaccia di cosa? Ti danno da mangiare di meno, se io vinco di più? E pensare che sei stato proprio tu a dirmi che questo è uno stupido gioco, senza nessuna importanza.

A Dink non fece piacere vedersi ritorcere contro le sue stesse parole, non in quelle circostanze. — Però tu sei quello che mi ha convinto a seguire fino in fondo il loro piano. Bene… ma non fare il gioco dei tre bussolotti con me, Ender. Non vinceresti.

— Probabilmente no — disse lui.

— Io ti ho insegnato molte cose.

— Le più importanti — ammise Ender. — Adesso le sto solo risuonando a orecchio.

— Congratulazioni — disse Dink.

— È bello avere un amico, qui. — Ma Ender non era troppo sicuro che Dink fosse sempre veramente suo amico, e quell’impressione era reciproca. Dopo una ventina di secondi di silenzio Dink tornò al suo tavolo.

Ender poggiò le posate sul piatto e si guardò attorno. Qua e là in sala si cominciava a far conversazione. Gettò un’occhiata a Bonzo, che adesso era uno dei comandanti più anziani. Rose de Nose aveva terminato il corso. Petra era con un gruppetto di colleghi, in un angolo, e non aveva ancora guardato una volta verso di lui. Poiché molti degli altri di tanto in tanto si voltavano a osservarlo, inclusi quelli con cui Petra stava parlando, Ender fu abbastanza certo che la ragazza evitava deliberatamente il suo sguardo. Ecco il guaio di chi vince fin dall’inizio, sospirò fra sé. Perdi gli amici.

Diamogli qualche settimana perché si abituino. Per il giorno in cui avrò la mia prossima battaglia, le acque si saranno un po’ calmate.

Carn Carby si fece un punto d’onore di fermarsi a salutare Ender, poco prima che scadesse l’ora del pranzo. Fu di nuovo un placido gesto formale, e tuttavia, a differenza di Dink, Carby esibì modi molto spontanei. — Pare che io sia in disgrazia — disse con franchezza. — Nessuno ha voluto credermi, quando ho detto che hai messo in atto una strategia mai vista prima. Così spero che tu batta il prossimo di questi altezzosi signorini che ti capiterà davanti. Te lo chiedo come un favore.

— Farò del mio meglio, — annuì Ender, serio. — E grazie per esserti fermato a parlare con me.

— Oggi ti hanno trattato in modo indegno. Per tradizione i nuovi comandanti vengono complimentati da tutti, la prima volta che vengono alla mensa. Ma di solito nessuno arriva qui senza aver già ingoiato diverse sconfitte. Io ci sono entrato per la prima volta appena un mese fa. E se qualcuno merita complimenti, sei tu. Ma così è la vita. Fagli mangiare la polvere.

— Sei davvero… sì, ci proverò. — Carby uscì, e Ender mentalmente lo aggiunse alla sua lista privata di membri a pieno merito della razza umana.

Quella notte Ender dormì meglio di quanto gli accadeva ormai da mesi. E il suo sonno fu così profondo che a destarlo fu soltanto il cicalino, quando le luci si riaccesero. Scendendo dal letto notò che si sentiva a meraviglia; andò di corsa a fare una doccia rapida, tornò in camera e tolse dall’armadio una tuta da fatica. Soltanto allora, quando l’aria spostata dall’indumento lo fece svolazzare, si accorse che sul pavimento c’era un foglio di carta. Lo raccolse e lo lesse.

ORDA DEI DRAGHI — comandante Ender Wiggin
sala di battaglia, ore 0700
ORDA DELLE FENICI — comandante Petra Arkanian

Era la sua vecchia orda, quella che aveva lasciato soltanto quattro settimane prima, e ne conosceva le tattiche di battaglia come il palmo della sua mano. Grazie anche ai suoi apporti tecnici era la più flessibile fra le orde, capace di rispondere bene e in fretta alle situazioni impreviste. Le Fenici sarebbero stati i più abili nell’adattarsi all’attacco fluido e non schematico dei Draghi. Gli insegnanti erano determinati a rendergli la vita piuttosto interessante.

0700 diceva il foglio, ed erano le 0630. Alcuni dei suoi ragazzi dovevano essersi già avviati sbadigliando a far colazione. Ender rimise l’uniforme nell’armadio, afferrò la tuta da battaglia e pochi secondi dopo entrava a lunghi passi nella camerata della sua orda.

— Signori, spero che ieri abbiate imparato cos’è una battaglia, perché oggi siamo gentilmente attesi nella stessa sala.

Occorse loro qualche momento per capire che stava parlando di una battaglia, e non dell’addestramento. Doveva esserci un errore, dissero alcuni. Nessuno aveva mai affrontato due avversari in due giorni consecutivi.

Lui porse il foglio a «Mosca» Molo, il capo del branco A, che all’istante sbraitò: — Tute da battaglia! Controllare la batteria delle pistole! Oggi i Draghi bruceranno la coda a certi tipi che si fanno chiamare Fenici, uomini! Scattare!

— Perché non ce lo hai detto prima? — chiese Zuppa Cinese. Zuppa aveva un modo di fare domande a Ender che nessun altro osava imitare.

— Volevo lasciarvi il tempo di fare una bella doccia — disse lui. — Ieri le Lepri dicevano che abbiamo vinto perché la nostra puzza li ha messi fuori combattimento.

I soldati che erano nelle vicinanze risero.

— Non hai trovato quel foglio finché non sei tornato dalla doccia, comandante. Vero? — disse una voce.

Ender si volse in cerca di chi aveva parlato. Era Bean, già in tuta da battaglia e con uno sguardo insolente negli occhi. Cerchi l’occasione di restituire pan per focaccia, eh, Bean?

— Proprio così — disse, esibendo un’annoiata pazienza. — Io non sono vicino al pavimento quanto te, caro bambino.

Altre risate. Bean arrossì di rabbia.

— È chiaro che ci troviamo di fronte a schemi tattici troppo rigidi — disse Ender. — Ma di volta in volta diversi, e io voglio che le iniziative dei capibranco siano lucide. Non posso far finta che mi piaccia il modo in cui ci mettono sotto il torchio, però so di poter dire una cosa: che ho un’orda capace di farcela.

Dopo quella frase, se avesse chiesto loro di seguirlo sulla luna senza tuta spaziale i Draghi ci avrebbero provato.

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