«Giosafatte!» ringhiò Baley. «Ci vado, ci vado.» Si alzò, si diresse verso l’ufficio e finalmente R. Sammy tacque.
Appena entrato, Baley disse: «Accidenti, questore, non mi mandi a chiamare da quel coso! Come glielo devo dire?».
Ma l’altro si limitò a dire: «Siediti, Lije».
Baley sedette e aspettò. Forse era stato ingiusto con il vecchio Julius; forse neanche lui aveva dormito, dopotutto. Aveva un’aria abbattuta.
Il questore picchiettava sulle carte davanti a lui. «Risulta che hai chiamato un certo dottor Gerrigel a Washington con il raggio isolato.»
«Esatto, questore.»
«Non esiste registrazione della conversazione, proprio perché isolata. Vuoi dirmi di che avete parlato?»
«Sto cercando informazioni supplementari.»
«È un robotista, vero?»
«Esatto.»
Il questore sporse il labbro inferiore e improvvisamente sembrò un bambino che tenesse il broncio. «Che cosa vuoi sapere? Che genere di informazioni cerchi?»
«Non ne sono sicuro, questore. Ho solo la sensazione che in un caso come questo tutte le informazioni riguardanti i robot possano servire.» Da quel momento in poi Baley si cucì la bocca: non voleva scendere in dettagli, e questo era tutto.
«Io non lo farei, Lije. Non credo che sia una mossa saggia.»
«Qual è la sua obiezione?»
«Meno persone vengono informate nel caso, meglio è.»
«Gli dirò meno che posso, è ovvio.»
«Non credo che sia una cosa saggia, te lo ripeto.»
Baley si sentiva abbastanza male per perdere la pazienza: «Mi sta ordinando di non vederlo?».
«No, no. Fai come credi opportuno, l’indagine è affidata a te. Solo…»
«Solo cosa?»
Il questore scosse la testa. «Niente. Dov’è lui? Sai chi intendo.»
Baley lo sapeva, e rispose: «Di nuovo allo schedario».
Il questore aspettò un lungo momento prima di parlare, poi: «Non stiamo facendo molti progressi, lo sai».
«Non ne abbiamo fatti finora, ma le cose possono cambiare.»
«Va bene, allora» disse il questore, come se non andasse veramente bene.
Quando Baley tornò nel suo angolo ci trovò R. Daneel.
«Be’, che hai scoperto?» chiese duro.
«Ho completato la mia prima e frettolosa ricerca nello schedario, collega Elijah, e ho rintracciato due delle persone che hanno cercato di bloccarci ieri sera, e che, fra parentesi, si trovavano al negozio di scarpe al momento dell’incidente.»
«Vediamo.»
R. Daneel piazzò le piccole cartelle davanti a Baley: erano grandi come francobolli e punteggiate dei piccoli tondini che servivano da codice. Il robot aveva con sé anche il decodificatore, dentro il quale inserì la prima cartella. I puntini avevano proprietà di conduzione diverse da quelle della cartella nel suo insieme, e quindi un campo elettrico, passando attraverso la cartella, veniva distorto in modo altamente specifico. In conseguenza di ciò il piccolo schermo si riempiva di parole che, se non codificate, avrebbero riempito parecchi fogli di carta normale. Parole, inoltre, che non potevano essere interpretate da nessuno che non possedesse un decodificatore della polizia.
Baley lesse il materiale. La prima persona si chiamava Francis Cloussarr, trentatré anni all’epoca dell’arresto avvenuto due anni prima. Imputazione: incitamento alla sedizione; occupazione: impiegato presso la Lieviti Newyorchesi; indirizzo, eccetera; genitori, eccetera; capelli, occhi, segni caratteristici, istruzione ricevuta, curriculum professionale, profilo psicanalitico e fisico, informazioni qua, informazioni là e finalmente il rimando alla foto tridimensionale nella galleria dei farabutti.
«Hai controllato la fotografia?» chiese Baley.
«Sì, Elijah.»
La seconda persona era un certo Gerard Paul. Baley dette un’occhiata al materiale sulla cartella e disse: «Non serve a niente».
R. Daneel obbiettò: «Sono certo che non è così. Se esiste un’organizzazione di terrestri capaci del crimine di cui ci stiamo occupando, questi ne sono membri. Non ti sembra un legame ovvio? Credo che dovremmo interrogarli».
«Non ne caveresti niente.»
«Ma erano al negozio di scarpe e alla mensa! Non possono negarlo.»
«Essere in quei posti non è un crimine. E poi, possono negarlo. Possono dare la loro parola contro la nostra. Come dimostriamo che mentono?»
«Io li ho visti.»
«Non è una prova!» scattò Baley, inferocito. «Nessun tribunale, se mai arrivassimo a tanto, crederebbe che tu puoi ricordare due facce tra mille.»
«È evidente che posso.»
«Sicuro, ma dì ai giudici che cosa sei. Non appena l’avrai fatto ti squalificheranno come testimone. Sulla Terra quelli della tua specie non hanno status giuridico, quindi nei tribunali non contano.»
R. Daneel disse: «Devo dedurne, allora, che hai cambiato idea rispetto a ieri».
«Che vuoi dire?»
«In mensa mi hai detto che non c’era bisogno di arrestarli subito; che fin quando io ero in grado di ricordare le facce, potevamo farlo in qualsiasi momento.»
«Non avevo riflettuto bene» disse Baley. «O davo i numeri. Non si può fare.»
«Nemmeno usando un’esca psicologica? Loro non saprebbero che non abbiamo prove.»
Baley disse, teso: «Senti, fra mezz’ora arriva il dottor Gerrigel da Washington. Ti dispiace aspettare finché non ci ho parlato? Ti dispiace?»
«Aspetterò» rispose R. Daneel.
Anthony Gerrigel era un uomo preciso, educato, di altezza media, e dall’aspetto non si sarebbe detto uno dei più grandi robotisti viventi. Era in ritardo di venti minuti e si scusò a profusione. Baley, bianco d’una rabbia che nasceva dalla preoccupazione, accettò le scuse di malagrazia e come se non avessero importanza. Controllò la prenotazione della sala riunioni D e ripeté le istruzioni secondo le quali non dovevano essere disturbati per nessun motivo per un’ora. Poi guidò il dottor Gerrigel e R. Daneel lungo un corridoio, su per una rampa e in una sala riunioni a prova di irradiazioni-spia.
Prima di sedersi Baley ispezionò attentamente le pareti: ascoltava il lieve ronzio del pulsometro che teneva in mano e aspettava la minima diminuzione della vibrazione normale, che avrebbe indicato una crepa, sia pur piccola, nell’isolamento. Poi puntò l’apparecchio al pavimento, al soffitto, e, con particolare attenzione, alla porta. Non c’erano crepe.
Il dottor Gerrigel fece un piccolo sorriso; sembrava che potesse ridere soltanto in formato ridotto. Era tanto compito, nel vestiario, da sfiorare la pignoleria. I capelli grigio-ferro erano pettinati accuratamente, all’indietro e la faccia aveva un colorito roseo che sembrava lavato di fresco. Sedeva impettito, quasi rigido, come se avesse preso troppo alla lettera il consiglio materno di tenere la schiena dritta.
Disse a Baley: «Sembra che stia per succedere qualcosa di grosso, da come si comporta».
«Questa riunione è qualcosa di grosso, dottore. Mi servono delle informazioni sui robot che forse solo lei può darmi. Tutto quello che ci diremo, ovviamente, è segreto, e la Città le chiederà di dimenticare questa conversazione non appena sarà terminata.» Baley guardò l’orologio.
Il piccolo sorriso scomparve dalla faccia del robotista. Disse: «Mi permetta di spiegare perché sono in ritardo». La cosa ovviamente gli pesava. «Ho deciso di non venire in aereo. Soffro il mal d’aria.»
«Mi dispiace» disse Baley. Mise via il pulsometro, accertandosi ancora una volta che funzionasse a dovere, poi sedette.
«Non è esattamente una questione di stomaco, ma di nervosismo. Una forma di leggera agorafobia. Non è niente di particolarmente anomalo, ma c’è. Così ho preso la strada celere.»
Baley provò un immediato interesse: «Agorafobia?».
«La faccio sembrare peggio di quel che è» disse il robotista. «È semplicemente la sensazione che si ha in aereo. Ha mai volato, signor Baley?»
«Parecchie volte.»
«Allora sa che cosa voglio dire. È la sensazione di essere circondati dal vuoto; di essere separati dall’abisso da pochi centimetri di metallo. È molto spiacevole.»