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«No. I Mondi Esterni si sono formati prima che il cosiddetto Civismo si diffondesse sulla Terra; prima delle Città, insomma. Le nuove colonie sarebbero formate da individui con alle spalle l’esperienza delle Città, più la prospettiva di una cultura C/Fe. Sarebbe una sintesi, un amalgama. Così com’è ora. la Terra collasserà in un futuro molto prossimo, i Mondi Esterni degenereranno in un futuro appena più lontano, ma le nuove colonie saranno il ceppo nuovo e sano, perché combineranno il meglio dei due sistemi. E il loro atteggiamento verso i mondi più antichi, Terra inclusa, darà a tutti una scossa vitale.»

«Non lo so. È tutto confuso, dottor Fastolfe.»

«È un sogno, sì. Ma ci pensi.» Improvvisamente lo Spaziale si mise in piedi. «Ho parlato con lei più di quanto pensassi. Anzi, più tempo di quanto ci consigliano le circolari sanitarie. Vuole scusarmi?»

Baley e R. Daneel uscirono dalla cupola. Il sole si trovava in una posizione diversa ed era più giallo; la luce li inondò ancora una volta. Baley si domandò, fantasticamente, se su un altro mondo la luce del sole sarebbe parsa la stessa. Meno violenta, meno dorata, forse. E più sopportabile.

Un altro mondo? Il brutto Spaziale con le orecchie a sventola gli aveva riempito la testa di strane idee. Forse, in un giorno lontano, i medici di Aurora si erano chinati sul bimbo Fastolfe e si erano chiesti se convenisse farlo crescere… Non era troppo brutto? O forse i loro criteri non riguardavano l’estetica? Quand’è che la bruttezza diventa deformità, quali deformità…

Ma quando la luce sparì e superarono la porta che conduceva al Personale, l’influsso delle parole di Fastolfe cominciò ad attenuarsi.

Baley scosse la testa, esasperato. Era ridicolo. Costringere i terrestri ad emigrare, a fondare una nuova società! Era pura follia. Che cosa volevano realmente gli Spaziali?

Ci pensò, ma senza giungere ad alcuna conclusione.

Lentamente l’auto di pattuglia si immise sull’antica autostrada. Baley tornava nella realtà. Il fulminatore era un caldo e piacevole peso contro la coscia. I rumori e la vita pulsante della Città erano altrettanto caldi, altrettanto piacevoli.

Per un attimo, mentre la Città si chiudeva su di loro, il suo naso captò un odore leggero, fuggevole.

E Baley pensò: "La Città: puzza".

Pensò ai venti milioni di esseri umani ammassati fra le pareti d’acciaio del grande abisso e per la prima volta in vita sua ne avvertì l’odore con la sensibilità di chi ha respirato l’aria aperta.

Pensò: "Sarebbe diverso, su un altro mondo? Meno gente e più aria pulita?".

Ma il rombo pomeridiano della Città era tutto intorno a loro, l’odore recedette sullo sfondo e sparì, e Baley provò una vaga vergogna di se stesso.

Abbassò la leva di guida e captò una quantità maggiore di energia irradiata. L’autopattuglia accelerò improvvisamente e s’immise sulle deserte corsie dell’autostrada per veicoli a motore.

«Daneel» disse Baley.

«Sì, Elijah.»

«Perché il dottor Fastolfe mi ha detto tutte quelle cose?»

«Credo, Elijah, che volesse farti capire quanto è importante il caso a cui stiamo lavorando. Non si tratta soltanto di smascherare un assassino, ma di salvare Spacetown e con essa il futuro della razza umana.»

Baley disse, asciutto: «Credo che avrebbe fatto meglio a mostrarmi la scena del delitto e a farmi parlare con gli uomini che hanno trovato il corpo».

«Dubito che avresti potuto scoprire qualcosa, Elijah. Siamo stati piuttosto scrupolosi.»

«Davvero? Non avete niente, nemmeno un indizio. Nemmeno un sospetto.»

«No, hai ragione. La risposta deve essere nella Città. Per essere esatti, comunque, un indiziato lo avevamo.»

«Cosa? Non me ne hai mai parlato.»

«Non mi era sembrato necessario. Certo ti rendi conto anche tu che l’unica persona sospettabile automaticamente era…»

«Chi, nel nome del cielo?»

«L’unico terrestre presente sulla scena. Il questore Julius Enderby.»

X

Pomeriggio di un agente investigativo

L’autopattuglia sbandò da una parte e si fermò contro la parete impersonale dell’autostrada. Cessato il ronzio del motore, il silenzio era fitto e pesante.

Baley guardò il robot accanto a lui e disse in tono stranamente tranquillo: «Cosa?».

Baley aspettava una risposta e i secondi passavano. Una piccola vibrazione solitaria crebbe, raggiunse l’apice e svanì. Era il rumore di un’altra autopattuglia, che arrancava diretta chissà dove, forse a un chilometro e mezzo di distanza. O forse era un carro dei pompieri che si recava al suo appuntamento incendiario.

Una parte del cervello di Baley si chiese se qualcuno conoscesse tutte le strade che si snodavano nelle viscere di New York. A nessun’ora del giorno e della notte dovevano essere completamente deserte, eppure esistevano diramazioni e deviazioni che nessuno percorreva da anni. Con improvvisa, folgorante chiarezza ricordò un racconto che aveva visto da ragazzo.

Riguardava le strade di Londra e cominciava abbastanza tranquillamente con un delitto. L’assassino correva verso un nascondiglio prestabilito, all’angolo di una strada nella cui polvere le impronte dei suoi piedi erano il primo segno lasciato da secoli. In quel buco abbandonato avrebbe potuto aspettare finché le ricerche del colpevole fossero state abbandonate.

Ma aveva svoltato all’angolo sbagliato: nel silenzio e nella solitudine delle strade tortuose aveva mandato una bestemmia giunta fino al cielo, in cui giurava che a dispetto della Trinità e di tutti i santi avrebbe raggiunto ugualmente la sua tana.

Da quel momento in poi aveva sbagliato tutte le strade. I suoi tentativi l’avevano sprofondato in un dedalo di tunnel e corridoi che dal settore di Brighton, sulla Manica, l’avevano sospinto a Norwich e poi a Coventry e a Canterbury. Senza fine aveva errato nelle viscere della grande Città di Londra, percorrendo da capo a capo il settore sudorientale dell’Inghilterra. I vestiti si erano ridotti a stracci e le scarpe a semplici fasce, ma la forza, per quanto ridotta, non lo abbandonava del tutto. Era stanco ma incapace di fermarsi. Poteva solo andare avanti e affrontare un nuovo incrocio, inevitabilmente sbagliato.

A volte sentiva il rumore di un veicolo, ma sempre nel corridoio vicino; e per quanto corresse in fretta (perché si sarebbe costituito volentieri, ormai) i corridoi che raggiungeva erano immancabilmente deserti. A volte vedeva un’uscita e sperava che portasse alla vita, al respiro della Città, ma più si affrettava e più quella si faceva lontana, finché svoltava di nuovo… ed era persa.

A volte i funzionari incaricati di qualche missione nella rete sotterranea vedevano una figura nebbiosa zoppicare silenziosa verso di loro, un braccio semitrasparente alzarsi in preghiera, una bocca aprirsi e muoversi, restando muta. E dopo essersi avvicinata un poco la figura ondeggiava e spariva.

Era un racconto che aveva perso gli attributi della normale narrativa ed era entrato nel folklore. "Il londinese errante" era un personaggio conosciuto in tutto il mondo.

Nelle profondità di New York Baley ricordò la storia e si sentì a disagio.

In quel momento R. Daneel disse qualcosa e le sue parole furono accompagnate da una leggera eco: «Qualcuno potrebbe udirci».

«Qua sotto? Nemmeno per idea. Parlami del questore, adesso.»

«Era sulla scena, Elijah. È un abitante della Città, quindi era logico metterlo fra gli indiziati.»

«Sospettate ancora di lui?»

«No, la sua innocenza è stata provata in modo irrefutabile: non gli si è trovato il fulminatore e non c’è rischio che ci sia sfuggito. Enderby è entrato a Spacetown dalla solita via, e, come sai, le armi vengono tolte a tutti.»

«A proposito, si è rintracciato l’arma del delitto?»

«No, Elijah. Abbiamo controllato tutti i fulminatori esistenti a Spacetown e abbiamo scoperto che nessuno è stato usato da settimane. Un esame dei tamburi radioattivi è stata la prova conclusiva.»

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