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Sedette su uno dei letti e si tolse la camicia. «Propongo una levataccia, per domani.»

«C’è una ragione specifica?»

«I nostri amici non conoscono ancora l’ubicazione dell’appartamento, o almeno lo spero. Se ci alziamo presto staremo tanto più al sicuro. Una volta alla centrale decideremo se la nostra associazione è ancora una cosa conveniente.»

«Tu pensi di no?»

Baley si strinse nelle spalle e disse, sfatto: «Non possiamo perdere il nostro tempo a correre».

«Ma mi sembra…»

R. Daneel fu interrotto dal lampeggiare della luce scarlatta del campanello.

Baley si alzò in piedi silenziosamente e tolse il fulminatore dalla fondina. La luce scarlatta lampeggiò di nuovo.

Baley andò dietro la porta, mise il pollice sul pulsante dell’arma e fece girare l’interruttore che attivava lo spioncino unilaterale. Non era un buono spioncino: la zona trasparente era piccola e distorceva le immagini, ma bastò a rivelare il figlio di Baley, Ben.

Baley reagì immediatamente: spalancò la porta, afferrò brutalmente il polso del ragazzo che stava per suonare una terza volta e lo trascinò all’interno.

Solo lentamente Ben si riebbe dallo stupore e dalla paura mentre cercava di riprendere fiato contro la parete dove era stato scaraventato dal padre.

Si sfregò il polso e disse, afflitto: «Papà, non avresti dovuto prendermi così».

Baley guardava di nuovo attraverso la zona trasparente della porta, che aveva richiuso. Il corridoio, per quanto poteva dire, era vuoto.

«Ben, hai visto nessuno là fuori?»

«No. Cielo, papà, era solo venuto a vedere se stavi bene.»

«Perché non dovrei stare bene?»

«Non lo so. È stata mamma, piangeva e tutto il resto. Ha detto che dovevo trovarti, e che se non mi muovevo veniva lei e non sapeva quello che sarebbe successo. Mi ha costretto a venire, papà.»

«Come mi hai trovato?» chiese Baley. «Tua madre sapeva dov’ero?»

«No, ma ho chiamato il tuo ufficio.»

«E te l’hanno detto?»

Ben era sorpreso dalla violenza del padre. A voce bassa, rispose: «Certo. Perché, non dovevano?».

Baley e R. Daneel si guardarono in faccia.

Baley si avvicinò al figlio e disse: «Dov’è tua madre, Ben? A casa?».

«No, è andata a cena dalla nonna ed è rimasta là. Anche io devo tornare là. Voglio dire, se tutto va bene, papà.»

«Rimarrai qui, invece. Daneel, hai osservato L’esatta posizione del comunico di questo piano?»

Il robot disse: «Sì. Intendi lasciare la stanza per usarlo?».

«Devo mettermi in contatto con mia moglie.»

«Se posso suggerirlo, questo è compito più adatto a Bentley. La cosa comporta un rischio e lui è meno importante.»

Baley spalancò gli occhi: «Ma che dici, tu…».

Poi si calmò: «Dannazione, che mi arrabbio a fare?».

Continuò, con più calma: «Tu non capisci, Daneel. Fra noi terrestri è costume non esporre i propri figli al pericolo, anche se può sembrare una cosa logica».

«Pericolo!» esclamò Ben, quasi deliziato. «Che sta succedendo, papà? Eh, papà?»

«Niente, Ben. E comunque non sono affari tuoi, capito? Preparati ad andare a letto. Ti voglio a letto, quando sarò tornato.»

«Oh, papà, non aprirò bocca con nessuno. Te lo giuro.»

«A letto!»

«Oh, papà!»

Baley spinse indietro il bordo della giacca per essere pronto a sparare. Si trovava nel comunico di zona, davanti a un ricevitore al quale aveva dato il suo numero personale; ora aspettava, mentre un computer distante venticinque chilometri controllava per vedere se la chiamata era inoltrabile. Si trattò di un’attesa breve, perché un agente investigativo non ha limite al numero di chiamate che può fare in servizio, e quando fu autorizzato dettò il numero di sua suocera.

Il piccolo schermo alla base dell’apparecchio si accese e un viso di donna lo fissò.

Baley disse, con un filo di voce: «Passami Jessie, mamma».

Jessie arrivò subito, perché evidentemente si aspettava la chiamata. Baley la guardò un attimo, poi tolse l’immagine.

«Va bene, Jessie, Ben è qui. Cosa c’è che non va?» Teneva d’occhio l’ambiente intorno a lui con estrema cautela. Non gli sfuggiva niente.

«Stai bene? Non sei nei guai?»

«Sto bene, Jessie, questo lo vedi. Ora calmati.»

«Oh, Lije, sono stata così in pena…»

«Perché?» le chiese a gola stretta.

«Lo sai. Il tuo collega.»

«Cosa c’è che non va nel mio collega?»

«Te l’ho detto la notte scorsa. Ci saranno guai.»

«Queste sono sciocchezze. Stanotte Ben rimane da me, tu vai a letto presto. Ciao, tesoro.»

Interruppe la comunicazione e fece due lunghi respiri prima di tornare indietro. Aveva la faccia grigia per la preoccupazione e la paura.

Quando Baley rincasò Ben era in mezzo alla stanza; una delle lenti a contatto che usava era posata nel recipiente, l’altra l’aveva ancora nell’occhio.

Il ragazzo disse: «Oh, papà, non c’è acqua in questo posto? Il signor Olivaw dice che non posso andare al Personale».

«Ha ragione, non puoi. Rimettiti quella cosa nell’occhio, Ben, non ti farà male dormirci per una notte.»

«Okay.» Ben rimise la lente, posò il recipiente e s’infilò a letto. «Cielo, che materasso!»

Baley disse a R. Daneel: «Penso che non ti dia fastidio restare seduto».

«No, certo. A proposito, m’interessano gli strani vetrini che Bentley porta agli occhi. Tutti i terrestri li usano?»»

«No, solo alcuni» rispose Baley, distratto. «Io non ne ho bisogno, per esempio.»

«A cosa servono?»

Baley era troppo assorbito dai suoi pensieri per rispondere. E non erano pensieri rosa.

Le luci erano spente ma Baley era ancora sveglio. Sentiva vagamente il respiro di Bentley, profondo e regolare anche se un po’ roco. Girò la testa di lato e gli sembrò di vedere R. Daneel, seduto e assolutamente immobile, la faccia rivolta alla porta.

Poi Baley si addormentò e sognò Jessie. Sua moglie precipitava nella camera di fissione di una centrale atomica, e precipitando protendeva le braccia verso di lui, e urlava; ma lui riusciva soltanto a guardare, paralizzato, al di qua della riga rossa, finché il corpo di Jessie rimpiccioliva sempre più e diventava un puntino.

Guardava, e sapeva di essere stato lui a spingerla nella fornace.

XII

Parla un esperto

Elijah Baley alzò gli occhi e il questore Enderby entrò nell’ufficio. Baley fece un cenno con la testa, ma era ancora addormentato.

Il questore dette un’occhiata all’orologio e borbottò: «Non dirmi che sei stato qui tutta la notte!»

«No» rispose Baley.

L’altro abbassò la voce: «Hai avuto guai, per caso?».

Baley scosse la testa.

«Forse ho sottovalutato un po’ troppo l’eventualità che esplodano disordini. Se c’è qualcosa che posso…»

Baley disse, secco: «Questore, se fosse successo qualcosa glielo direi. Non ho avuto problemi».

«D’accordo.» L’alto funzionario si mosse verso il fondo della sala e attraversò la porta che dava nell’ufficio privato, segno inequivocabile della sua posizione.

Baley lo seguì con lo sguardo e pensò: lui avrà dormito, stanotte.

Poi si dedicò al rapporto di routine che stava redigendo per coprire le vere attività degli ultimi giorni, ma le parole che aveva appena battuto gli sembrarono sfocate e cominciarono a ballare davanti agli occhi. Lentamente si accorse che qualcosa stava in piedi accanto alla scrivania.

Alzò la testa: «Cosa vuoi?».

Era R. Sammy, e Baley pensò: "Il fattorino meccanico di Julius; rende, fare il questore!".

Attraverso il fatuo sorriso, R. Sammy disse: «Il questore vuole vederti, Lije. Subito».

Baley agitò una mano: «Mi ha appena visto. Digli che ci andrò più tardi».

«Ha detto subito» ripeté l’automa.

«Va bene, va bene. Vattene.»

Il robot indietreggiò ripetendo: «Il questore vuole vederti subito, Lije. Ha detto subito».

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