«Naturalmente, capisco ciò che vuol dire.» Fastolfe guardò R. Daneel e fece un piccolo gesto.
R. Daneel si toccò il polsino della camicia e la cucitura diamagnetica cedette, mettendo il braccio a nudo. Era liscio, realistico e totalmente umano. I peli corti e color del bronzo erano esattamente identici a quelli di un uomo, sia per quantità che per distribuzione.
Baley disse: «E allora?».
R. Daneel strinse il polpastrello del medio della mano destra con il pollice e l’indice della sinistra; la breve manipolazione che seguì non fu del tutto chiara, ma proprio come il tessuto della camicia aveva ceduto quando il campo diamagnetico della cucitura era stato interrotto, così ora si aprì il braccio.
Sotto lo strato di materiale simile a pelle c’era il grigio azzurrino dei cavi, lacci e giunture d’acciaio.
«Vuole esaminare l’interno di Daneel più da vicino?» chiese il dottor Fastolfe, gentilmente.
Baley riuscì a stento a sentire la domanda, perché il pulsare del sangue nelle orecchie l’aveva quasi assordato. Il pulsare del sangue e l’improvvisa, isterica risata del questore.
IX
Spiegazioni di uno Spaziale
I minuti passavano e il ronzìo nelle orecchie diventava sempre più forte. Anche la risata svanì. La cupola e tutto ciò che vi era contenuto ondeggiava; i sensi di Baley vacillarono.
Finalmente si ritrovò seduto nella solita poltrona, ma con la sensazione di aver perso molto, moltissimo tempo. Il questore era scomparso, ma il ricevitore tridimensionale era opaco e lattescente; R. Daneel gli sedeva accanto e pizzicava delicatamente l’avambraccio di Baley messo a nudo. Baley poteva vedere, sotto la pelle, il piccolo punto scuro di una scheggia ipodermica. Mentre guardava sparì e s’immerse nel fluido intercellulare, da cui si sarebbe diffusa nel fluido sanguigno e nelle cellule vicine, per poi raggiungere tutti gli angoli del suo corpo.
La sua presa sulla realtà aumentò.
«Ti senti meglio, collega Elijah?» chiese R. Daneel.
Baley si sentiva molto meglio. Tirò il braccio verso di sé e il robot lasciò fare. Mentre tirava giù la manica della camicia, Baley vide che il dottor Fastolfe sedeva al solito posto e un lieve sorriso ne addolciva i lineamenti familiari.
Baley chiese: «Sono svenuto?».
«In un certo senso, sì» rispose il dottor Fastolfe. «Temo che abbia avuto un forte shock.»
Baley ricordava tutto, adesso. Afferrò il braccio di R. Daneel, gli tirò su il polsino e tastò il polso: era morbido, ma sotto si sentiva la durezza di qualcosa che non era osso.
R. Daneel si lasciò esaminare dall’agente. Baley continuò a guardarlo, pizzicando la pelle sulla linea mediana. C’era una piccola cucitura?
Era logico che ci fosse. Un robot, coperto di pelle sintetica e fatto in modo da sembrare un uomo, non poteva essere riparato nel modo tradizionale. Non poteva avere uno sportello sul petto che il meccanico toglieva quando era necessario, o una testa che si svitava. Le varie parti del corpo meccanico, quindi, erano tenute insieme da una linea di campi micromagnetici. Un braccio, la testa, il corpo dovevano aprirsi in due al comando appropriato e rimettersi insieme facendo il movimento opposto.
Baley borbottò, rosso di vergogna: «Dov’è il questore?».
«Preso da affari urgenti» rispose il dottor Fastolfe. «L’ho incoraggiato io a chiudere il collegamento, assicurandogli che ci saremmo presi cura di lei.»
«Vi siete già presi cura abbastanza» disse Baley, pupo. «Vi ringrazio, ma credo che per il momento qui ho finito.»
Si mise in piedi e sentì dolori in tutte le giunture. Si sentiva improvvisamente vecchio, troppo vecchio per ricominciare da zero. E non ci voleva la chiaroveggenza per capire che il suo futuro era quello di un declassato.
Il questore doveva essere per metà spaventato e per metà furioso. Avrebbe affrontato Baley con la faccia bianca, tirata, e si sarebbe tolti gli occhiali ogni quindici secondi. Con voce serena (Julius Enderby non urlava quasi mai) gli avrebbe spiegato che gli Spaziali erano mortalmente offesi.
"Non puoi parlare in quel modo a uno Spaziale, Lije. Non lo sopportano." (Baley aveva l’impressione di sentire la voce di Enderby (vicina e realistica fin nella minima intonazione). "Ti avevo avvertito. Non serve dire che hai combinato un terribile pasticcio. Non che non veda il tuo punto, capiscimi, mi rendo conto di ciò che hai tentato di fare. Se fossero terrestri, tutto s’aggiusterebbe. Ti direi: dacci sotto, prova coi tuoi metodi. Fumateli. Ma gli Spaziali! Avresti dovuto avvertirmi, Lije. Consultarti con me. Io li conosco, so capirli dentro e fuori."
Lui, che avrebbe potuto rispondere? Che Enderby era proprio il tipo a cui non avrebbe mai raccontato un piano del genere; che la missione implicava un rischio tremendo, mentre Enderby era la cautela in persona. Che Enderby stesso gli aveva indicato i danni che derivano dal fallimento o dal tipo sbagliato di successo. E, infine, che l’unico modo di sfuggire al declassamento consisteva nel mostrare che il colpevole apparteneva alla stessa Spacetown…
Enderby avrebbe detto: "Ci sarà un rapporto su quanto è successo, Lije. Ci sarà ogni genere di ripercussioni. Conosco gli Spaziali: chiederanno che tu sia sollevato dall’incarico e noi dovremo fare come dicono. Tu lo capisci, vero, Lije? Cercherò di renderti le cose meno dure possibile. Puoi contarci. Ti proteggerò fin dove potrò."
Baley sapeva che avrebbe mantenuto la parola. Il questore l’avrebbe difeso, ma solo fin dove poteva, e non a costo di alienarsi il sindaco già furente.
Gli parve di sentire la voce del sindaco, adesso: "Maledizione, Enderby, che storia è questa? Perché non mi ha consultato? Chi comanda in questa Città? Perché avete permesso che un robot non autorizzato entrasse fra noi, e, soprattutto, che diavolo ha fatto questo Baley…?"
Se si fosse arrivati al punto di scegliere fra il destino di Baley e quello del questore, che risultato poteva aspettarsi Baley? Non poteva biasimare il superiore.
Il minimo che potesse capitargli era di essere destituito, e non era una bella prospettiva. Il fatto di vivere in una Città moderna assicurava a tutti un minimo per sopravvivere, anche ai declassati; quanto piccolo fosse quel minimo, tuttavia, Lije Baley lo sapeva fin troppo bene.
Ciò che rendeva la vita sopportabile erano i piccoli privilegi connessi alla qualifica: un sedile più comodo, un taglio di carne migliore, un’attesa più breve nella fila degli uffici e così via. A una mente filosofica queste potranno sembrare inezie, cose per cui è inutile lottare.
Ma nessuno, per filosofo che sia, può rinunciare ai piccoli privilegi già acquisiti senza dolore. È questo il punto.
Che infima comodità era il lavandino installato in casa, quando per trent’anni Baley ne aveva fatto a meno ed era andato a lavarsi al Personale; era inutile perfino come status-symbol, visto che ostentare la propria condizione è un fatto di pessimo gusto. Eppure, se glielo avessero tolto, quanto sarebbe stato più umiliante, più insopportabile ogni viaggio per andare al Personale! Come gli sarebbe parso fantastico il ricordo delle rasature in camera da letto! Che lusso, che, bene perduto!
Era di moda, fra i moderni scrittori politici, considerare con disprezzo e disapprovazione il "fiscalismo" del medioevo, quando l’ecùnomia era basata sul denaro. La lotta per l’esistenza, dicevano, era una competizione brutale. In quelle condizioni non si poteva costruire una società veramente complessa, perché la "corsa alla lira" generava nell’uomo una terribile ansia. (Gli studiosi avevano varie teorie sull’origine della parola "lira", ma il senso della frase, nel complesso, non sfuggiva).
Per contrasto, il moderno "civismo" veniva esaltato come molto più efficiente e illuminato.
Forse era così. Esistevano romanzi storici di gusto sensazionale e romantico, e in quelli che riflettevano il punto di vista dei medievalisti si sosteneva che il "fiscalismo" era il progenitore di virtù quali l’individualismo e l’iniziativa.