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— Però intanto avrei fatto qualcosa di buono…

— Sai come sarebbero interpretate le tue azioni, dall'esterno? Come quelle di uno psicopatico che uccide brave persone a destra e a sinistra. Descrizioni agghiaccianti sui giornali. Soprannomi pittoreschi: il Borgia di Mosca, magari. Inoculeresti nel cuore degli uomini tanto di quel Male, che nemmeno un'intera brigata di maghi delle Tenebre potrebbe rivaleggiare con te.

— Perché avete sempre una risposta pronta a qualsiasi domanda? — chiese Svetlana con amarezza.

— Perché abbiamo passato l'apprendistato. E siamo sopravvissuti. Per lo meno, siamo sopravvissuti quasi tutti!

Chiamai il cameriere e gli chiesi il menu. Poi proposi: — Prendiamo un cocktail e poi ce ne andiamo? Scegli!

Svetlana annuì e cominciò a esaminare la carta dei vini. Il cameriere, un ragazzo alto e bruno di pelle, non russo, rimase in attesa. Era abituato a vedere di tutto e lo spettacolo di due ragazze sole, una delle quali si comportava come un uomo, non lo turbava affatto.

— Un Alter Ego — disse Svetlana.

Scossi la testa perplesso: era uno dei cocktail più forti. Ma non volli cominciare un'altra discussione.

— Due Alter Ego e il conto.

Mentre il barman ci preparava i cocktail e il cameriere si occupava del conto, rimanemmo in un silenzio penoso. Alla fine Svetlana mi chiese: — Va bene, per quanto riguarda i poeti la situazione è chiara. Sono potenziali Altri. E i malfattori? Caligola, Hitler, i serial killer?

— Esseri umani.

— Tutti?

— Di solito sì. Noi abbiamo i nostri malfattori. I loro nomi non dicono niente agli uomini, ma voi presto inizierete il corso di storia.

L'Alter Ego risultò all'altezza del suo nome. Nel calice oscillavano senza mescolarsi due strati pesanti, uno bianco e uno nero, costituiti l'uno da un liquore dolce e pannoso e l'altro da una birra scura amara.

Pagai in contanti — non mi piace lasciare tracce elettroniche — e alzai il calice.

— Alla Guardia.

— Alla Guardia — ripeté Svetlana. — E che tu possa uscire al più presto da questa storia.

Avrei tanto voluto chiederle di toccare legno, così, per sicurezza, ma preferii tacere. Bevvi il cocktail in due sorsi: prima una dolcezza morbida, poi una leggera sensazione di amaro.

— Buono — disse Sveta. — Sai che mi piace questo posto? Possiamo fermarci ancora un po'?

— A Mosca ci sono molti posti simpatici. Meglio trovarne uno senza maghi neri in libera uscita.

Sveta annuì. — A proposito, non si vede più.

Guardai l'orologio. Decisamente quella sosta in bagno stava diventando troppo lunga.

E la cosa più spiacevole era vedere la famiglia del mago ancora seduta al tavolo: la moglie aveva già l'aria molto agitata.

— Sveta, torno subito.

— Non dimenticarti chi sei! — mi sussurrò lei mentre mi alzavo.

Sì. Effettivamente entrare in una toilette al seguito di un mago delle Tenebre sarebbe stato un po' strano, per me.

In ogni caso attraversai la sala, dando nel frattempo un'occhiata al Crepuscolo. Sarebbe stato logico vedere l'aura del mago, ma tutto intorno c'era solo un vuoto grigio, colorato dalle solite aure: soddisfatte, preoccupate, libidinose, alcoliche, felici.

Eppure non si era certo dileguato attraverso le tubature!

Soltanto oltre i muri del ristorante, dalle parti del consolato della Bielorussia, baluginava una luce incerta: l'aura di un Altro. Ma non era quella di un mago delle Tenebre, era molto più debole, e di una coloritura diversa.

Dove si era ficcato?

Il corridoio stretto aveva due porte in fondo ed era assolutamente vuoto. Per un attimo rimasi ancora indeciso: magari non l'avevamo semplicemente notato mentre rientrava, magari se n'era andato attraverso il Crepuscolo, magari aveva una tale potenza da essere capace di teletrasportarsi. Poi aprii la porta della toilette degli uomini.

Era un ambiente molto pulito, chiaro, un po' angusto e decisamente pervaso dal profumo di un deodorante floreale.

Il mago delle Tenebre era in terra, con le braccia spalancate che non permettevano alla porta di aprirsi completamente. Il suo viso aveva un'espressione sconcertata, confusa, e sul palmo aperto di una mano notai il luccichio di un sottile tubetto di cristallo. Aveva cercato di afferrare un'arma, ma troppo tardi.

Sangue non ce n'era. Anzi, non c'era proprio niente, e quando guardai di nuovo attraverso il Crepuscolo, non scorsi nello spazio il minimo segno di magia.

Sembrava che il mago delle Tenebre fosse morto per un banale attacco di cuore o per un colpo apoplettico, il che non era possibile.

E c'era un altro piccolo particolare che confutava decisamente questa versione: un piccolo taglio sul colletto della camicia. Sottile, come lasciato da un rasoio. Come se la gola fosse stata trafitta da una lama che aveva trapassato anche il tessuto della camicia. Solo che sulla pelle non c'era il minimo segno.

— Vigliacchi — mormorai, non sapendo a chi di preciso indirizzare il mio insulto. — Vigliacchi!

Difficilmente avrei potuto immaginare una situazione peggiore di quella in cui ero finito. Cambiare corpo, andare "alla presenza di testimoni" in un ristorante affollato, per poi ritrovarmi assolutamente solo davanti al cadavere di un mago delle Tenebre, ucciso dal Selvaggio.

— Forza, Pavlik — sentii alle mie spalle.

Mi girai: la donna che prima era seduta al tavolo con il mago delle Tenebre era lì nel corridoio, e teneva per mano suo figlio.

— Non voglio, mamma! — piagnucolava il bambino.

— Entra e vai a dire a papà che ci siamo stufati — disse la donna in tono paziente. Un attimo dopo alzò la testa e mi vide.

— Chiami qualcuno! — gridai disperatamente. — Chiami qualcuno! C'è una persona che sta male, qui! Porti via il bambino e chiami qualcuno!

In sala di certo mi avevano sentito: Ol'ga aveva la voce forte. Subito tutti si zittirono, si sentiva solo il motivo monotono della musica etnica che continuava a suonare, ma il sottofondo di voci era cessato del tutto.

La donna non mi ascoltò. Si scaraventò nella toilette, spingendomi bruscamente da una parte, e si gettò sul corpo del marito, lamentandosi ad alta voce, già perfettamente consapevole di quello che era accaduto, e tuttavia affannandosi a fare qualcosa, come allargare il colletto della camicia o scrollare il corpo immobile. Poi cominciò a schiaffeggiare il mago sulle guance, come se sperasse che fosse tutta una finzione, o uno svenimento momentaneo.

— Mamma, perché picchi papà? — gridò Pavlik con una vocina sottile sottile. Non era spaventato, soltanto stupito. Evidentemente non aveva mai assistito a scenate. Doveva essere una famiglia molto unita.

Presi il bambino per una spalla e con delicatezza cercai di allontanarlo. Il corridoio però stava già cominciando a riempirsi di gente. Vidi Sveta. I suoi occhi erano spalancati: aveva già capito tutto.

— Porti via il bambino — dissi al cameriere. — Credo che quest'uomo sia morto.

— Chi ha trovato il corpo? — chiese lui senza nessuna intonazione particolare, come se stesse prendendo un'ordinazione.

— Io.

Il cameriere annuì, passando abilmente il bambino — che adesso aveva cominciato a piangere, essendosi reso conto che nel suo piccolo mondo sicuro era successo qualcosa di sbagliato — a un'inserviente del ristorante.

— E che cosa faceva nella toilette degli uomini?

— La porta era aperta, ho visto che era disteso in terra — mentii senza nemmeno pensarci.

Il cameriere annuì, ammettendo la possibilità di un simile evento. Contemporaneamente, però, mi afferrò per un gomito.

— Dovrà aspettare l'arrivo della polizia, signorina.

Svetlana si era già spinta fino a noi e sentendo le ultime parole assunse un'aria accigliata. Ecco, ci mancava solo che le venisse l'idea di cancellare la memoria a tutti i presenti!

— Certo, certo. — Feci un passo e il cameriere dovette mollare la presa e seguirmi. — Sveta, che cosa orribile, c'è un cadavere!

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