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Tacque, ficcò la mano nel sacchetto e tirò fuori un'altra bottiglia di vodka. Sospirò. — Due. Tutto sommato, penso che non ci ubriacheremo. Non ci riusciremo. Quanto a Ol'ga e alle sue parole…

Come riusciva a sentire sempre ogni cosa?

— Ol'ga non è invidiosa perché Svetlana potrebbe compiere ciò che a lei non è riuscito. Ne perché Sveta ha tutto davanti a sé. mentre per lei, a dirla franca, tutto è ormai alle spalle. È invidiosa del fatto che tu le stai accanto, che vorresti fermare la donna che ami. Anche se in realtà non puoi fare niente. Geser poteva, ma non voleva. Tu non puoi, ma vorresti. Insomma, forse non c'è nessuna differenza.

— Tu sai a cosa stanno preparando Svetlana?

— Sì. — Semën versò la vodka nei bicchieri.

— A cosa?

— Non posso rispondere. Ho firmato un impegno scritto. Quello che potevo dire, l'ho detto.

— Semën…

— Te l'ho detto. Ho firmato. Devo togliermi la camicia per farti vedere il segno del fuoco punitivo sulla schiena? Se mi lascio scappare qualcosa, brucerò insieme a questa poltroncina e la mia cenere starà tutta in un pacchetto di sigarette. Perciò scusami, Anton. Non chiedermi niente.

— Grazie — dissi. — Su, beviamo. E se riuscissimo a ubriacarci? Ne avrei bisogno.

— Lo vedo — concordò Semën. — Cominciamo.

Capitolo 3

Mi svegliai molto presto. C'era silenzio, l'autentico silenzio della campagna, animato dal fruscio di un venticello che finalmente, verso il mattino, si era rinfrescato. Il letto era inondato di sudore e la testa mi scoppiava. Nel letto vicino — ci era stata assegnata una stanza da tre — russava monotono Semën. Direttamente sul pavimento, avvolto nella coperta, dormiva Tolja: aveva rifiutato l'amaca che gli era stata offerta, dicendo che la schiena gli doleva sempre di più a causa di un trauma subito nel 76 durante una certa baraonda, e che perciò era meglio per lui dormire sul duro.

Mi sollevai, cingendomi la nuca con le palme per non crollare a quel movimento brusco, e mi misi a sedere sul letto. Guardai sul comodino e con stupore vidi due pastiglie di aspirina e una bottiglia d'acqua minerale. Chi era l'anima buona?

La sera prima avevamo svuotato tre bottiglie in due. Poi era arrivato Tolja. Poi qualcun altro ancora con del vino. Ma non ne avevo bevuto. Erano bastati i barlumi residui di coscienza.

Presi l'aspirina, ci bevvi sopra mezza bottiglia di minerale e restai per un po' seduto, in attesa che la medicina facesse effetto. Il dolore non passava, ed era insopportabile.

— Semën — chiamai con voce rauca. — Semën!

Lui aprì un occhio. Aveva un aspetto assolutamente decoroso. Come se non avesse affatto bevuto molto più di me. Ecco cosa significa avere qualche secolo d'esperienza.

— La testa… levami via tutto…

— Non ho l'accetta sottomano — borbottò.

— Ma no — gemetti. — Intendo il dolore!

— Anton, abbiamo bevuto di nostra spontanea volontà? Ci ha costretti qualcuno? Ce la siamo goduta?

Si girò sull'altro fianco.

Capii che da Semën non avrei ottenuto alcun aiuto. E sostanzialmente aveva anche ragione, solo che non riuscivo proprio più a sopportare il dolore. Tastai con i piedi in cerca delle scarpe, oltrepassai Tolja e uscii.

Le stanze per gli ospiti erano due, ma la porta dell'altra sembrava chiusa a chiave. Invece la camera da letto della padrona di casa, in fondo al corridoio, era aperta. Mi tornarono in mente le parole di Tigrotto sulle sue capacità curative, così mi avviai in quella direzione senza esitare.

Ma sembrava che quel giorno tutto avesse dato inizio alle ostilità contro di me. Nella stanza non c'era nessuno. Contro tutti i miei sospetti, non c'erano neppure Ignat e Lena. Tigrotto era nella camera di Julja. La ragazzina stava dormendo, con un braccio e una gamba a penzoloni dal letto come fanno i bambini.

A quel punto mi era indifferente a chi domandare aiuto. Mi avvicinai con circospezione, mi sedetti accanto all'enorme letto, e cominciai a bisbigliare: — Julja, Julja …

La ragazzina aprì gli occhi, batté le ciglia. E domandò pietosa: — Postumi?

— Sì. — Ad annuire non riuscii: in quel momento nella mia testa fecero scoppiare una piccola granata.

— Eh, già…

Chiuse gli occhi, mi si strinse al collo e addirittura, secondo me, si assopì di nuovo. Per alcuni secondi non accadde nulla, poi il dolore cominciò rapidamente a regredire. Come se avessero aperto un piccolo rubinetto nascosto nella nuca, e ora stessero facendo uscire il veleno ribollente che vi si era accumulato.

— Grazie — sussurrai soltanto. — Grazie, Julja.

— Non bere così tanto, non lo reggi — borbottò lei un attimo prima di mettersi a sbuffare con il naso: proprio come se in un istante fosse passata dal lavoro al sonno. Così sanno fare soltanto i bambini e i computer.

Mi rimisi in piedi, accorgendomi con entusiasmo che il mondo aveva ritrovato i colori. Ovviamente Semën aveva ragione. Bisognava farsi carico delle proprie responsabilità. Ma a volte semplicemente non se ne ha la forza. Esaminai la stanza. Era tutta dominata dalle sfumature del marrone, persino la finestra inclinata era in tono, l'impianto stereo era dorato, il tappeto sul pavimento era lanuginoso, color marrone chiaro.

Brutta, nel complesso. Nessuno mi ci aveva invitato.

Mi avvicinai in silenzio alla porta; quando ormai l'avevo superata, udii la voce di Julja: — Mi comprerai gli Snickers, d'accordo?

— Due confezioni — risposi.

Potevo tornare a dormire, ma al letto erano legati ricordi abbastanza spiacevoli. Come se bastasse sdraiarsi, perché il dolore, acquattatosi nel cuscino, balzasse fuori di nuovo. In camera feci solo un salto, il tempo di afferrare i jeans e la camicia: mi vestii standomene in piedi sulla soglia.

Ma davvero dormivano tutti? Tigrotto doveva essere in giro da qualche parte là fuori, e qualcuno tra le chiacchiere e il bere doveva aver tirato mattina.

Sempre al primo piano si trovava una piccola hall: vi incontrai Daniil e Nastja della sezione scientifica, pacificamente addormentati su un divanetto. Mi allontanai in fretta, scuotendo la testa: Daniil aveva una moglie molto graziosa e simpatica, Nastja un marito non più giovane e follemente innamorato di lei.

In effetti erano semplici esseri umani.

Noi Altri, invece, siamo volontari della Luce. Niente da fare, anche la nostra morale è differente. E come al fronte, nelle relazioni militari e sessuali con le crocerossine, che confortano il corpo ufficiali e i soldati semplici non solo nelle brande d'ospedale. In guerra si percepisce troppo acutamente il gusto della vita.

C'era anche la biblioteca. Ci trovai Garik e Farid. Erano stati proprio loro a conversare tutta la notte, facendo fuori più di una bottiglia. Si erano addormentati sulle poltrone e, con ogni evidenza, da non molto: sul tavolo di fronte a Farid una pipa mandava ancora un filo di fumo. Sul pavimento giacevano pile di libri tolti dagli scaffali. Dovevano aver discusso a lungo di qualcosa, chiamando in aiuto scrittori e poeti, filosofi e storici.

Scesi giù per una scala a chiocciola di legno. Chissà se avrei trovato qualcuno con cui condividere quel mattino placido e silenzioso.

Anche in salotto dormivano tutti. Diedi un'occhiata in cucina e non vi trovai nessuno, tranne un cane accucciato in un angolo.

— Ti sei rianimato? — gli chiesi.

Il terrier digrignò i denti e cominciò a guaire lamentosamente.

— Be', e chi ti ha detto di attaccarci, ieri? — Mi accovacciai davanti al cane. Presi dal tavolo un pezzo di salame: il cane, beneducato, non aveva osato farlo. — To'.

Le fauci schioccarono sul palmo, mentre spazzavano il salame.

— Sii buono, e gli altri saranno buoni con te! — gli spiegai. — E non rannicchiarti negli angoli.

Niente. Avrei mai trovato qualcuno sveglio?

Presi un pezzetto di salame anche per me. Lo masticai per bene, riattraversai la sala e gettai un'occhiata nello studio.

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