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— È serissimo! — replicò Ol'ga contrariata. — Anton, il Capo ha ammesso di essersi comportato in modo scorretto. Ed è stato indulgente con noi, conviene approfittarne. La vampira ha puntato il ragazzo, capisci? Per lei è come un panino che non ha finito di addentare, che le è stato tolto di bocca. Lui è appeso a un filo. Lei ora ha il potere di attirarlo in qualunque tana in qualunque angolo della città. Ma questo è un vantaggio anche per noi. Non c'è bisogno di cercare una tigre nella giungla quando si può legare un capretto in un campo.

— A Mosca questi capretti…

— Questo ragazzo è appeso a un filo. La vampira non ha esperienza. Stabilire un contatto con una nuova vittima è più difficile che non attirarne una vecchia. Credimi.

Sussultai, scacciando un sospetto idiota. Sollevai la mano per fermare un'auto e dissi cupo: — Ti credo. Ti credo ora e per sempre.

Capitolo 4

La civetta uscì dal Crepuscolo subito dopo di me. Spiccò il volo — per un istante percepii la lieve puntura dei suoi artigli — e si diresse verso il frigorifero.

— Devo sistemarti un trespolo? — chiesi, chiudendo a chiave la porta.

Vidi Ol'ga parlare per la prima volta. Il becco sussultava, mentre lei tirava fuori con uno sforzo evidente le parole. A dire il vero non capisco come un uccello possa essere in grado di parlare. Tanto più con voce umana.

— Non è il caso, altrimenti comincerò a deporre le uova.

Era chiaro che tentava di scherzare.

— Se ti ho offesa, perdonami — le dissi per ogni eventualità. — Sto cercando anch'io di vincere l'imbarazzo.

— Capisco. È naturale.

Ficcai la testa nel frigorifero e scovai qualcosa per uno spuntino. Formaggio, salame, cetriolini e funghi sotto sale… Chissà se si accompagnava bene il cetriolino sotto sale a un cognac invecchiato di quarant'anni. Forse avrebbero avvertito un reciproco senso di disagio. Lo stesso che avvertivo io con Ol'ga.

Presi il formaggio e il salame.

— Scusa, ma non ci sono limoni. — Comprendevo tutta l'assurdità di quella preparazione, eppure… — Però il cognac è buono.

La civetta taceva.

Dal cassetto scostato sotto il bar presi una bottiglia di Kutuzov.

— L'hai mai provato?

— È la nostra risposta al Napoleon? — La civetta fece una risatina. — No, non l'ho mai provato.

L'assurdità di quella situazione aumentava. Sciacquai due bicchieri da cognac e li posai sul tavolo. Fissai dubbioso quel pugno di penne bianche. E il becco corto, ricurvo.

— Non puoi bere dal bicchiere. Vuoi che ti porti un piattino?

— Voltati.

Ubbidii. Udii alle mie spalle un fruscio di penne. Poi un sibilo leggero, sgradevole, che rammentava il frusciare di una serpe o una fuoriuscita di gas da una bombola.

— Ol'ga, scusa, ma… — Mi voltai.

La civetta era sparita.

Già, mi aspettavo qualcosa del genere. Avevo sperato che potesse assumere sembianze femminili almeno di tanto in tanto. E mi ero figurato mentalmente un ritratto di Ol'ga, la donna prigioniera nel corpo di uccello che ancora rammentava l'insurrezione decabrista. Chissà perché me l'immaginavo come la principessina Lopuchina in fuga dal ballo. Solo un po' più vecchia, più seria, con lo sguardo pieno di saggezza e un po' emaciata…

Sullo sgabello sedeva una donna giovane, giovanissima. Che non dimostrava più di venticinque anni. Con i capelli tagliati cortissimi, da maschio, le guance nere di fumo, come fosse scampata a un incendio. Bella, i tratti del viso fini, aristocratici. Ma quella pelle che sembrava bruciata, quella pettinatura rozza, mostruosa…

I suoi abiti mi scioccarono del tutto. Sudici pantaloni militari degli anni Quaranta, giacca di ovatta imbottita aperta e, sotto, una maglietta grigia da ginnastica. Piedi nudi.

— Sono bella? — chiese la donna.

— Ebbene sì — risposi io. — La Luce e le Tenebre… Perché hai quest'aspetto?

— L'ultima volta che ho assunto sembianze umane risale a cinquantacinque anni fa.

Annuii.

— Capisco, ti hanno utilizzata quando c'era la guerra?

— Mi utilizzano con tutte le guerre. — Ol'ga sorrise gentilmente. — Quando le guerre sono gravi. Altrimenti mi è proibito assumere sembianze umane.

— Ma ora non c'è nessuna guerra.

— Vorrà dire che ci sarà.

Questa volta non sorrise. Cercai di allontanare quella maledizione con un segno.

— Vuoi fare una doccia?

— Volentieri.

— Non ho abiti femminili. Un paio di jeans e una camicia ti vanno bene?

Annuì. Si alzò goffamente, tenendo in modo buffo le braccia e si fissò stupita i piedi nudi. Se ne andò nel bagno, come se non fosse la prima volta che faceva una doccia da me.

Mi fiondai nella camera da letto. Non doveva avere molto tempo.

I jeans erano vecchi, ma erano di una misura in meno rispetto a quelli che portavo adesso. Le sarebbero andati comunque grandi… E la camicia? No, meglio un maglioncino leggero. La biancheria… Eh, sì… come no, come no.

— Anton!

Feci una pila dei vestiti, agguantai un asciugamano pulito e tornai a razzo. La porta del bagno era aperta.

— Che rubinetti che hai…

— Sono d'importazione… Sto arrivando.

Entrai. Ol'ga stava nella vasca da bagno, con la schiena voltata verso di me e girava assorta la maniglia del rubinetto ora a destra ora a sinistra.

— Verso l'alto — le dissi. — Alzala, a sinistra scende acqua fredda, a destra calda.

— Chiaro, grazie.

Non provava il minimo imbarazzo per la mia presenza. Era comprensibile, se si pensava alla sua età e al suo rango… insomma, al rango che aveva avuto.

Ma io mi sentivo confuso. E per questo diventai cinico.

— Eccoti i vestiti. Forse troverai qualcosa che fa al caso tuo. Sempre se ne hai bisogno, naturalmente.

— Grazie, Anton… — Ol'ga mi fissò. — Non farci caso. Sono stata per ottant'anni dentro un corpo d'uccello. E ho trascorso la maggior parte del tempo in letargo, ma ora ne ho abbastanza.

Aveva occhi profondi, magnetici. Pericolosi.

— Ormai non mi sento più né un essere umano, né un Altro, né una donna. E neppure una civetta. Solo… una vecchia, abominevole idiota asessuata che qualche volta è in grado di parlare.

L'acqua della doccia la colpì. Ol'ga sollevò lentamente le braccia, si rigirò con piacere sotto i getti scroscianti.

— Togliermi questa fuliggine di dosso per me è molto più importante che… turbare un simpatico giovane.

Dopo aver incassato il "giovane", senza ulteriori polemiche, uscii dal bagno. Scossi la testa, presi il cognac e stappai la bottiglia.

Almeno una cosa era chiara: lei non era un mutantropo. Un mutantropo non avrebbe tenuto sul corpo dei vestiti. Ol'ga era una maga. Una maga, una donna di circa duecento anni, che ottant'anni fa era stata punita con la privazione del corpo. Era una specialista in scambi magnetici, l'ultima volta che era stata reclutata per una missione risaliva a cinquant'anni prima…

C'erano dati sufficienti per una ricerca nei computer della base. Non avevo accesso a tutti i file, non avevo il grado. Ma, per fortuna, i superiori non potevano neppure immaginare quante informazioni si ottenevano da una ricerca incrociata.

Naturalmente, se avessi davvero voluto scoprire l'identità di Ol'ga.

Versato il cognac nei bicchieri, mi misi in attesa. Ol'ga uscì dal bagno cinque minuti dopo, asciugandosi i capelli con la salvietta. Indossava i miei jeans e il mio maglione.

Non si può dire che si fosse trasformata del tutto… però era diventata più gradevole.

— Grazie, Anton. Non puoi immaginare con che piacere…

— Lo immagino.

— Immaginare non basta. L'odore, Anton… l'odore di bruciato. Io mi sono quasi abituata dopo mezzo secolo. — Ol'ga sedette goffamente sullo sgabello. Sospirò. — È brutto, ma sono felice dell'attuale crisi. Non importa che sia perdonata, purché abbia la possibilità di lavarmi…

— Puoi rimanere con queste sembianze? Esco a comprarti degli abiti adatti.

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