Uno dei due battenti d’acciaio era aperto.
Gray si mosse rapidamente, raggiunse la porta e si appiattì contro la parete. Appoggiò un ginocchio a terra e sbirciò oltre lo stipite.
La sala aveva il soffitto basso e abbracciava quell’intero livello. Era il cuore del laboratorio. Lungo una parete era allineata una serie di computer. Sui monitor scorrevano cifre e codici. I computer probabilmente giustificavano il circuito separato, una fonte di alimentazione autonoma.
Gli occupanti della sala, concentrati com’erano sull’attività in corso, non avevano notato che era saltata la corrente nel resto del palazzo. Ma sicuramente sarebbero stati avvertiti da un momento all’altro.
Baldric e Isaak, nonno e nipote, erano chini su una stazione di lavoro. Su uno schermo piatto da trenta pollici appeso alla parete scorreva rapidamente una serie di rune, l’una dopo l’altra. Erano le cinque rune dei libri di Hugo.
«Il codice non è ancora decifrato», disse Isaak. «È saggio avviare la fase globale del programma con la Campana, mentre l’enigma rimane irrisolto?»
«Sarà risolto!» Baldric batté un pugno sul tavolo. «È soltanto questione di tempo. In più, siamo abbastanza vicini alla perfezione. Pensa a te e tua sorella, voi due vivrete a lungo. Cinquant’anni. La debilitazione non sopraggiungerà fino al vostro ultimo decennio di vita. È tempo di procedere.»
Isaak sembrava poco convinto.
Baldric si alzò, sollevò un braccio e fece un gesto ampio verso il soffitto. «Guarda che cosa hanno fatto i ritardi. Il nostro tentativo di dirottare l’attenzione internazionale sull’Himalaya ci si è rivoltato contro.»
«Perché abbiamo sottovalutato Anna Sporrenberg.»
«E la Sigma», aggiunse Baldric. «Ma non importa. Ora abbiamo i governi che ci soffiano sul collo. Con l’oro potremo comprarci soltanto un po’ di protezione. Dobbiamo agire subito. Prima Washington, poi il mondo intero. E, in quel caos, ci sarà tutto il tempo necessario per decifrare il codice. La perfezione ci apparterrà.»
«E dall’Africa sorgerà un nuovo mondo», recitò Isaak a memoria, come se fosse una preghiera che gli era stata inculcata in giovane età, cementata nel suo codice genetico.
«Puro e ripulito dalla corruzione», aggiunse Baldric, concludendo la litania. Ma le sue parole erano altrettanto prive di passione. Era come se non fosse altro che l’ennesima fase del suo programma di riproduzione, un esercizio scientifico.
Baldric si drizzò, appoggiandosi al bastone. Senza altro pubblico all’infuori del nipote, Gray notò quanto sembrava debole. Si chiese se l’accelerazione dei tempi non fosse motivata soprattutto dall’incombente morte del vecchio, più che da una vera necessità. Erano tutti quanti pedine inconsapevoli del desiderio di Baldric di attuare il suo piano? Forse aveva orchestrato l’intero scenario di proposito, consapevolmente o inconsapevolmente, per giustificare un’azione in quel momento, fintanto che era ancora in vita?
Isaak si era spostato a un’altra postazione di lavoro. «Abbiamo luce verde su tutta la linea. La Campana è accesa e pronta per l’attivazione. Ora potremo ripulire la tenuta dai fuggitivi.»
Gray s’irrigidì. Che diavolo stavano per fare?
Baldric voltò le spalle al codice runico e diresse la sua attenzione al centro della stanza. «Preparati all’attivazione.»
Gray si spostò per vedere una porzione più ampia del locale.
Al centro c’era un grosso contenitore, fatto di qualche tipo di composto ceramico o metallico. Aveva la forma di una campana rovesciata, alta quanto Gray. Dubitava di poterne abbracciare anche soltanto metà della circonferenza.
Si sentì uno scoppiettio e un’eco di motori e dal soffitto scese una camicia di metallo interna, rivestita di una serie di meccanismi. Calò nel contenitore esterno. Allo stesso tempo, si aprì la guarnizione di un vicino serbatoio giallo, dal quale un liquido metallico violaceo defluì nel cuore della Campana.
Lubrificante? Combustibile?
Gray non ne aveva idea, ma notò i numeri stampati sul lato del serbatoio: 525. Era il misterioso Xerum.
«Solleva lo schermo protettivo», ordinò Baldric. Dovette gridare per sovrastare i rumori metallici del gruppo motore. Indicò il pavimento col bastone.
Anche quel piano era pavimentato con le stesse mattonelle grigie, a eccezione di una sezione circolare di un nero opaco, con un diametro di trenta metri, attorno alla Campana. L’intera circonferenza aveva un bordo alto una trentina di centimetri, come la pista di un circo. La parte di soffitto sovrastante rispecchiava il pavimento, ma invece del bordo c’era un solco circolare.
Era tutto quanto fatto di piombo.
Gray capì che probabilmente l’anello esterno del pavimento si sollevava, spinto dai pistoni, e s’inseriva nel soffitto, formando un grande cilindro che avrebbe racchiuso la Campana.
«Che succede?» gridò Baldric, voltandosi verso il nipote.
Isaak premeva inutilmente un interruttore. «I motori dello schermo non hanno corrente!»
I motori dovevano essere al piano inferiore. Il livello oscurato. Squillò un telefono, un trillo stridente, che competeva col rumore dei motori. Gray immaginava chi fosse a chiamare: la sicurezza aveva finalmente scoperto dov’erano i padroni di casa.
Era ora di andare.
Gray si alzò e si voltò.
Un tubo gli colpì il polso, facendogli cadere di mano la pistola. Poi partì un altro fendente, diretto alla testa. Lo schivò giusto in tempo.
Ischke gli si avvicinò. Dietro di lei, le porte dell’ascensore buio erano aperte, forzate con una leva. Evidentemente la donna era rimasta bloccata quando era mancata la corrente, poi era scesa fino a lì. Nel frastuono dei motori della Campana, Gray non l’aveva sentita forzare le porte dietro di lui.
Ischke sollevò il tubo.
Gray arretrò verso l’interno della sala della Campana, tenendo gli occhi fissi su di lei. Evitò di guardare le scale d’emergenza. Pregò che Marcia se ne fosse già andata, che fosse già diretta alla radio a onde corte, pronta a dare l’allarme a Washington.
Ischke, coi vestiti macchiati di grasso e col viso imbrattato, seguì Gray dentro il locale.
Gray sentì la voce di Baldric alle sue spalle. «Wat is dit? Sembra che la piccola Ischke abbia catturato il topolino che ha rosicchiato i fili.»
Gray era disarmato. Senza nessuna possibilità.
«I generatori stanno ritornando in linea», disse Isaak, con tono annoiato, per nulla colpito dall’intrusione.
Sotto i piedi di Gray ci furono un rombo e uno stridore di motori. Lo schermo cominciò a salire dal pavimento.
«E ora sterminiamo gli altri ratti», disse Baldric.
ore 14.45
Monk gridò per farsi sentire nel frastuono dell’elicottero. Il vortice creato dai rotori faceva turbinare sabbia e polvere tutt’attorno. «Sai far volare questo uccellino?»
Gunther annuì, impugnando la leva dei comandi.
Monk gli diede una pacca sulla spalla. Doveva fidarsi del nazista. Non poteva pilotare con una mano sola. Comunque, dato che l’obiettivo del gigante in quel momento era la sopravvivenza della sorella, Monk ritenne di poter fare quella scommessa.
Anna era seduta dietro con Lisa. Painter era accasciato tra di loro, con la testa ciondoloni. Il sedativo era leggero. Ogni tanto borbottava qualcosa di insensato, a proposito di un’incombente tempesta di sabbia, perso in paure del passato.
Chinando la testa sotto le pale, Monk girò attorno all’elicottero.
Dall’altra parte c’erano Khamisi e Mosi D’Gana, il capo zulù. Si strinsero reciprocamente gli avambracci. Mosi si era spogliato degli abiti cerimoniali: indossava una tuta kaki e un berretto, e portava in spalla un fucile automatico. A un cinturone nero era appesa una fondina, con una pistola. Inoltre, legata sulla schiena, portava una lancia corta con una lama spaventosa.