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Una carica di mortaio esplose sopra di loro, facendoli cadere tutti in ginocchio e assordandoli. Si aprì una crepa nel cemento e una scia di polvere finì nell’acqua puzzolente. Jakob si rimise in piedi, imprecando sottovoce.

Il suo secondo in comando, Oskar Heinrichs, lo raggiunse e gli indicò un ramo laterale della fognatura. «Prendiamo quella galleria, Obergruppenführer. È un vecchio canale di scolo per la pioggia. Secondo la cartina del comune, il collettore principale s’immette nel fiume, non lontano dall’Isola della Cattedrale.»

Jakob annuì. Nascoste nei pressi dell’isola, c’erano ad attenderli un paio di cannoniere mimetizzate, il cui equipaggio era composto da un altro commando. Ormai non era molto distante. Continuò a fare strada con passo sostenuto, mentre i bombardamenti dei russi diventavano sempre più intensi. Il rinnovarsi degli attacchi non faceva che preannunciare l’offensiva finale. La resa della città era inevitabile.

Raggiunta la diramazione, Jakob emerse dal sudiciume e s’issò sul bordo di cemento. I suoi stivali emettevano un suono fradicio a ogni passo. Per un certo periodo il tanfo di budella e melma aumentò e peggiorò, come se la fogna cercasse di cacciarlo dagli abissi. Jakob fece luce con la torcia lungo il canale di cemento. Forse l’aria aveva un odore più fresco? Seguì il fascio di luce con rinnovato vigore. Con la via di fuga così prossima, la missione era quasi finita. Il reparto avrebbe potuto attraversare mezza Slesia, prima che i russi raggiungessero i cunicoli sotterranei della miniera di Wenceslas. Per accoglierli calorosamente, Jakob aveva seminato trappole in tutti i corridoi dei laboratori. I russi e i loro alleati non avrebbero trovato nient’altro che la morte su quelle montagne.

Con quel pensiero appagante, Jakob proseguì la fuga verso la promessa di aria fresca. La galleria di cemento scendeva con un’inclinazione graduale. Accelerarono il passo, allarmati dall’improvviso silenzio tra le salve di artiglieria. I russi stavano attaccando in massa.

Rimaneva poco tempo. Il fiume non sarebbe rimasto agibile a lungo. Come se intuisse l’urgenza, il neonato iniziò un pianto sommesso, un flebile lamento, mentre svaniva l’effetto del sedativo. Jakob aveva raccomandato al medico della squadra di andarci piano coi farmaci, perché non osava mettere a rischio la vita del bambino. Forse era stato un errore…

I lamenti del piccolo assunsero un timbro sempre più stridente. Da qualche parte, a nord, esplose un solo colpo di mortaio. I lamenti divennero sonori vagiti, che echeggiavano nella gola di pietra della galleria.

«Fai tacere il bambino!» ordinò Jakob al soldato che lo portava.

Con una certa goffaggine, l’uomo, cinereo e magro come uno stecco, cercò di togliersi il fagotto dalle spalle, perdendo il suo berretto nero. Si sforzò di liberare il piccolo, ma ne ricavò soltanto altri strilli infastiditi.

«Lasci fare a me…» intervenne Tola, cercando di divincolarsi dal soldato che la teneva per un braccio. «Ha bisogno di me.»

Il soldato che portava il bambino lanciò uno sguardo a Jakob. Il mondo sopra di loro era piombato in un inquietante silenzio. Sotto, gli strilli proseguivano. Con una smorfia, Jakob annuì. Tola fu liberata dai lacci che aveva ai polsi. Sfregandosi le mani per riattivare la circolazione, si avvicinò al bambino. Il soldato le cedette il fardello con piacere. La donna si sistemò il piccolo tra le braccia, tenendogli sollevata la testa e cullandolo gentilmente. Si chinò verso di lui, per essergli più vicina, e cominciò a emettere suoni dolci, senza parole, ma rassicuranti, sussurrati tra un vagito e l’altro. Avvolse il bambino con tutto il suo essere. Piano piano gli strilli scemarono, sostituiti da gemiti sommessi.

Soddisfatto, Jakob fece un cenno alla guardia della donna. L’uomo sollevò la sua Luger e la tenne premuta contro la schiena di Tola. In silenzio, proseguirono il viaggio attraverso i cunicoli sotterranei di Breslavia. Ben presto l’odore di bruciato rimpiazzò il tanfo delle fogne. La torcia di Jakob illuminò una cappa di fumo che contraddistingueva l’uscita dal canale di scolo. Il silenzio dell’artiglieria perdurava, ma, soprattutto a est, proseguiva uno scoppiettio quasi incessante di colpi d’arma da fuoco. Più vicino, si distingueva nettamente lo sciabordio dell’acqua.

Jakob fece cenno ai suoi uomini di mantenere la posizione nella galleria e indicò l’uscita al suo radiotelegrafista. «Manda un segnale alle barche.»

Il soldato fece un rapido cenno d’assenso e si avviò di gran lena, scomparendo nell’oscurità fumosa. Dopo qualche istante, pochi lampi di luce trasmisero un messaggio in codice all’isola vicina. Le barche avrebbero impiegato soltanto un minuto per attraversare il canale e raggiungerli.

Jakob si voltò verso Tola, che continuava a portare il bambino. Il piccolo si era acquietato e aveva gli occhi chiusi.

Tola incrociò il suo sguardo e lo fissò impassibile. «Lei sa che mio padre aveva ragione», disse, con pacata certezza. Lanciò un rapido sguardo alle casse sigillate, poi tornò a guardare lui. «Glielo vedo scritto in faccia. Quello che abbiamo fatto… Ci siamo spinti troppo in là.»

«Queste sono decisioni che non spettano né a lei né a me», rispose l’uomo.

«E a chi, allora?»

Jakob scosse la testa e fece per voltarsi. Heinrich Himmler in persona gli aveva dato quegli ordini, non spettava certo a lui metterli in dubbio. Ma sentiva ancora gli occhi della donna puntati su di sé.

«È una sfida a Dio e alla natura», bisbigliò Tola.

Una voce gli risparmiò di rispondere.

«Arrivano le barche», annunciò il radiotelegrafista, di ritorno dall’uscita del canale di scolo.

Jakob impartì gli ultimi ordini e fece mettere i suoi uomini in posizione. Li condusse alla fine della galleria, che dava sulla sponda scoscesa del fiume Oder. Stavano per perdere il vantaggio dell’oscurità. A est l’alba infiammava già il cielo, ma dall’altra parte l’acqua era coperta da un’unica grande nuvola di fumo, trascinata e addensata dalle correnti d’aria che percorrevano il fiume. Quella cappa avrebbe contribuito a proteggerli. Ma per quanto tempo? Intanto continuava il chiacchiericcio stranamente allegro dei fucili, come petardi a festeggiare la distruzione di Breslavia.

Ormai libero dal puzzo di fogna, Jakob si tolse la maschera bagnata e inspirò a fondo l’aria pulita. Scrutò le acque, grigie come il piombo. Due imbarcazioni di sei metri solcavano il fiume, accompagnate dal gorgoglio dell’acqua e dal ronzio costante dei motori. Sulla prua di ciascuna, nascoste a malapena da tele cerate verdi, era stata montata una coppia di mitragliatrici MG-42.

Oltre le barche, si distingueva appena la massa scura di un’isola. In realtà l’Isola della Cattedrale non era un’isola, poiché gli abbondanti depositi di limo accumulatisi nel XIX secolo l’avevano fusa con la riva opposta. Un ponte in ghisa color verde smeraldo, che risaliva allo stesso periodo, la collegava alla riva del fiume su cui si trovava il reparto di Jakob. Le due imbarcazioni armate costeggiarono i moli di pietra sotto il ponte, preparandosi all’attracco.

Jakob alzò lo sguardo, attratto da un pungente raggio di sole che investiva le due guglie svettanti della Cattedrale, alla quale l’isola doveva il suo nome. Era una delle cinque o sei chiese ammassate sull’isola. L’uomo aveva ancora nelle orecchie l’eco delle parole di Tola Hirszfeld: È una sfida a Dio e alla natura.

Il freddo mattutino gli s’insinuò nei vestiti bagnati, facendogli venire la pelle d’oca. Non vedeva l’ora di essere ben lontano da lì e di poter dimenticare completamente quei giorni.

La prima barca raggiunse la riva. Allietato dalla distrazione e ancora di più dalla possibilità di muoversi, Jakob esortò i suoi uomini a caricare i due natanti. Tola rimase in disparte, col bimbo in braccio e con una guardia al suo fianco. Anche lei aveva trovato con lo sguardo le guglie raggianti nel cielo fumoso. Il rumore degli spari continuava e si avvicinava sempre di più. Si sentivano anche i carri armati che avanzavano con le marce ridotte. Il tutto punteggiato da grida e urla. Dov’era quel Dio che lei temeva di sfidare? Certamente non lì.

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