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Lisa gridò ancora. «Via! Via!» Non parlava la lingua del soldato, ma il terrore nella sua voce era evidente. I loro sguardi s’incrociarono. Lei gli fece cenno di raggiungerla nel suo nascondiglio. Fece altri segni, cercando di illustrare il percorso di fuga del cecchino. Ma dov’era andato? Era già appostato? «Corri!»

Il soldato fece un passo verso di lei. Un bagliore alle spalle dell’uomo rivelò l’errore di Lisa. Il cecchino non correva verso una nuova posizione di vantaggio. Dietro una finestra dell’edificio vicino cominciarono a danzare le fiamme: un’altra bomba.

La detonazione colse di sprovvista il militare. La porta alle sue spalle esplose in migliaia di frammenti infuocati che lo trafissero mentre l’onda d’urto lo sollevava di peso e lo scaraventava in mezzo al cortile. Atterrò pesantemente a faccia in giù e cominciò a scivolare. Una volta fermatosi, non si mosse più, anche quando i vestiti presero fuoco.

Lisa si riparò all’interno del tempio principale, continuando a scrutare l’entrata. Batté in ritirata verso l’uscita sul retro, verso quell’angusto corridoio. Non aveva nessun piano. Anzi riusciva a malapena a controllare i propri pensieri. Era certa soltanto di una cosa. Chiunque avesse assassinato Ang Gelu e il soldato non era un monaco folle. Quelle azioni erano troppo calcolate, erano esecuzioni programmate.

E ormai era rimasta sola.

Diede un’occhiata al corridoio e vide il corpo insanguinato di Relu Na. Il resto del corridoio sembrava sgombro. Forse poteva prendere la falce abbandonata dal morto: almeno avrebbe avuto un’arma di qualche tipo…

Entrò nel corridoio.

Prima ancora che potesse fare un secondo passo, dietro di lei si materializzò una presenza. Un braccio nudo le strinse il collo in una morsa e una voce rauca le risuonò nell’orecchio: «Non ti muovere».

Non essendo mai stata incline all’obbedienza, Lisa assestò una gomitata nella pancia dell’aggressore.

Il braccio allentò la presa e l’uomo cadde, strappando i tendaggi di broccato ricamato che adornavano l’ingresso e finendo col fondoschiena per terra.

Lisa si girò di scatto, con le ginocchia flesse, pronta a correre.

L’uomo indossava soltanto un perizoma. Aveva la pelle molto abbronzata, ma segnata qua e là da vecchie cicatrici. I capelli neri lisci e disordinati gli coprivano parte del viso. A giudicare dalla sua statura, dalla muscolatura e dalle spalle larghe, sembrava più un nativo americano che un monaco tibetano.

Ma forse era solo l’effetto del perizoma.

Gemendo, alzò lo sguardo verso di lei. La luce della lampada si specchiò in un paio di occhi blu ghiaccio.

«Chi sei?» chiese Lisa.

«Painter», rispose lui con un lamento. «Painter Crowe.»

2. LA BIBBIA DI DARWIN

Copenhagen, Danimarca,

16 maggio, ore 06.05

Che c’entravano i gatti con le librerie?

Il comandante Grayson Pierce sgranocchiò un’altra compressa di Claritin, mentre lasciava l’Hotel Nyhavn. Le ricerche del giorno precedente nella comunità bibliofila di Copenhagen l’avevano condotto in una mezza dozzina delle istituzioni letterarie della città. Sembrava che in ogni libreria avessero preso dimora colonie di felini. Se ne stavano distesi sui banconi oppure vagavano furtivi in cima a scaffali traballanti pieni di polvere e cuoio sgretolato.

E lui ne subiva le conseguenze, come quello starnuto che cercava di soffocare. O forse era soltanto un principio di raffreddore. A Copenhagen, la primavera era umida e fredda come l’inverno nel New England.

Non si era portato abiti abbastanza pesanti. Indossava un maglione acquistato in una boutique dai prezzi esorbitanti, nei pressi del suo albergo. Era un dolcevita di lana merino a coste, non lavorata e non tinta. E dava prurito. Almeno però teneva a bada il freddo del mattino.

Sebbene fosse già passata un’ora dall’alba, il sole smunto nel cielo grigio ardesia non lasciava nessuna speranza di una giornata più calda. Grattandosi il collo, si diresse verso la stazione centrale.

Il suo albergo era situato accanto a uno dei canali della città, fiancheggiato su entrambi i lati da villette a schiera dai colori allegri: una miscela di negozi, locande e abitazioni private. Gli ricordavano la città di Amsterdam. Lungo le banchine erano ormeggiate, l’una accanto all’altra, le imbarcazioni più disparate: basse corvette scolorite, scintillanti imbarcazioni da diporto, golette di legno maestose, yacht di un bianco splendente. Gray ne superò uno scuotendo la testa. Sembrava una torta nuziale galleggiante. Già a quell’ora del mattino, qualche turista munito di macchina fotografica vagava qua e là o si appostava lungo il parapetto del ponte, scattando allegramente.

Gray attraversò il ponte di pietra e costeggiò il canale per mezzo isolato, poi si fermò e si appoggiò al parapetto di mattoni. Gli apparve il suo riflesso, facendolo trasalire per un attimo. Nascosto per metà dall’ombra, il viso di suo padre lo fissava dalla superficie calma dell’acqua: i capelli neri come il carbone ricadevano lisci sugli occhi blu, una fossetta curva divideva il mento, il resto del viso era tutto angoli acuti, come pietra in cui erano scolpite le sue origini gallesi. Era tutto suo padre, cosa su cui Gray stava rimuginando un po’ troppo, tanto da non dormire la notte.

Che altro aveva ereditato da suo padre?

Un paio di cigni neri gli scivolarono davanti, agitando l’acqua e facendo scomparire il riflesso. I cigni si diressero verso il ponte, con movimenti armoniosi dei colli allungati, lo sguardo curioso e un’aria di noncuranza.

Gray seguì il loro esempio. Drizzandosi, finse di voler fare una foto alla fila di imbarcazioni, mentre in realtà stava studiando il ponte che aveva appena attraversato. Cercava eventuali vagabondi, facce familiari o sospette. Era uno dei vantaggi dell’alloggiare vicino al canale: i ponti erano strettoie perfette da cui osservare chiunque lo volesse pedinare. Passando da una sponda all’altra su quelle lingue di pietra, avrebbe reso visibile qualunque coda si trascinasse dietro. Rimase a guardare per un intero minuto finché non fu soddisfatto, memorizzando volti e andature, poi proseguì.

In una missione minore come quella, era più un’abitudine dettata dalla paranoia che dalla necessità, ma portava al collo un ricordo di quanto fosse importante la diligenza: una catenina con un pendente a forma di drago. Era un regalo di un’agente che stava dall’altra parte. La portava per ricordarsi di essere prudente.

Mentre si rimetteva in cammino, sentì una vibrazione familiare in tasca. Tirò fuori il cellulare e lo aprì. Chi lo chiamava a quell’ora del mattino?

«Pierce», rispose.

«Gray, meno male che ti trovo.»

La voce suadente e familiare infuse calore alle sue membra infreddolite. I lineamenti duri si addolcirono con un sorriso. «Sara?» La preoccupazione rese incerti i suoi passi. «Qualcosa non va?»

Sara Veroni era il motivo principale per cui Gray aveva chiesto quell’incarico e attraversato l’Atlantico fino alla Danimarca. Qualsiasi assistente ricercatore della Sigma, anche di livello inferiore, avrebbe potuto gestire quell’indagine, ma la missione era un’occasione perfetta per rivedere la bellissima italiana dai capelli scuri, tenente dei carabinieri. I due si erano conosciuti lavorando allo stesso caso a Roma, l’anno precedente. Da allora avevano inventato ogni genere di scusa per potersi rincontrare. Ma era stato difficile. Sara era bloccata in Europa per via del suo lavoro e lui, data la sua posizione alla Sigma Force, poteva allontanarsi da Washington soltanto in misura limitata. Erano passate quasi otto settimane da quando si erano visti l’ultima volta.

Davvero troppo tempo.

Gray ripensò al loro ultimo incontro, in una villa a Venezia, alla sagoma di Sara che si stagliava contro la portafinestra del balcone, alla sua pelle illuminata dalla luce del tramonto. Avevano trascorso l’intera serata a letto. Si sentì inondare dai ricordi: il gusto di cioccolato e cannella sulle labbra di lei, l’intenso profumo dei suoi capelli umidi, il calore del suo respiro sul collo, i gemiti sommessi, il ritmo dei loro corpi intrecciati, la carezza della seta…

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