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Fiona si rannicchiò, maledicendosi. E adesso? Avrebbe dovuto aspettare qualche istante prima di andarsene. Avrebbe destato troppi sospetti se si fosse fatta beccare alle costole di Ischke un’altra volta. In più, sapeva dove era diretta la donna: tornava all’ascensore. Purtroppo, Fiona non conosceva la casa abbastanza bene per raggiungere l’atrio tramite un percorso alternativo e tentare un’imboscata.

Aveva le lacrime agli occhi, per un misto di paura e frustrazione. Aveva fatto un gran casino.

Disperata, finalmente notò la sala che le stava di fronte. Era ben illuminata, irrorata dalla luce naturale del sole attraverso una cupola geodesica di vetro. Era una specie di cortile interno circolare. Dal centro del pavimento si ergevano palme giganti, con le chiome sotto la volta di vetro. Tutt’attorno, massicci colonnati sostenevano il soffitto e creavano una serie di chiostri profondi. Tre vestiboli col soffitto a volta, alti quanto il cortile centrale, si diramavano come cappelle dalla navata centrale di una chiesa, formando una croce.

Ma quello non era un luogo di culto.

La prima cosa che la colpì fu l’odore. Muschiato, fetido, come il puzzo di un ossario. Nello spazio cavernoso echeggiavano urla e ululati. La curiosità la spinse a fare un passo avanti. Tre gradini portavano alla sala principale. Non c’era nessuno del personale. L’uomo che aveva sentito correr via dopo i rimproveri di Ischke era svanito nel nulla.

Fiona esaminò la sala. In ciascuno dei chiostri a margine del gigantesco cortile c’erano gabbie imponenti, sigillate da grate di ferro e vetro, simili alla porta d’ingresso. Dietro le sbarre vide forme gigantesche, alcune raggomitolate a dormire, altre che camminavano avanti e indietro, una accovacciata e intenta a rosicchiare un pezzo di femore. Erano le mostruose iene.

Ma non era tutto.

Un gorilla era seduto imbronciato vicino all’ingresso di una delle gabbie e guardava fisso Fiona, con un’intelligenza inquietante. E c’era di peggio: una mutazione aveva privato del pelo quella bestia, dal cui corpo penzolava una pelle rugosa simile a quella di un elefante.

In un’altra gabbia, un leone camminava avanti e indietro. Aveva il pelo, ma gli cresceva a chiazze, sbiadito, e al momento era imbrattato di feci e sangue rappreso. Aveva gli occhi orlati di rosso e ansimava, mostrando i denti a sciabola.

Tutt’attorno c’erano altre forme mostruose: un’antilope zebrata con corna a spirale, un paio di sciacalli alti e scheletrici, un facocero albino corazzato come un armadillo. Uno spettacolo macabro e triste allo stesso tempo. Gli sciacalli rinchiusi nella medesima gabbia guaivano e uggiolavano, impacciati nei movimenti, storpi.

Ma la pietà non bastava a frenare il terrore suscitato dalle gigantesche iene. Fiona fissò lo sguardo su quella che stava rosicchiando il femore di qualche grosso animale, bufalo o gnu. C’era ancora un po’ di carne da staccare dall’osso. Fiona non poteva fare a meno di immaginare che sarebbe potuta essere lei al suo posto. Se Gray non l’avesse salvata…

Rabbrividì.

Serrando le massicce mandibole, la gigantesca iena addentò l’osso, che si spezzò col fragore di un colpo di fucile.

Fiona sussultò, di nuovo all’erta.

Ritornò alla porta. Aveva aspettato abbastanza. La missione era fallita, perciò sarebbe ritornata al suo nascondiglio con la coda tra le gambe.

Spinse con forza la porta.

Era chiusa a chiave.

ore 14.30

Gray fissava la fila di massicce leve d’acciaio, col cuore in gola. Gli ci era voluto un bel po’ per trovare gli interruttori principali della centralina elettrica. Percepiva l’energia che scorreva attraverso i giganteschi cavi del locale, una forza elettromagnetica che lo colpiva alla base del collo.

Aveva già sprecato troppo tempo.

Dopo aver scoperto che mancava uno dei fusti di Xerum 525, quello destinato agli Stati Uniti, sentiva l’ansia dell’urgenza. Aveva abbandonato ogni tentativo di perlustrare il resto del sotterraneo. La cosa più importante era mettere in allerta Washington.

Marcia aveva riferito di aver visto una radio d’emergenza a onde corte nella zona di sicurezza, quando era stata prelevata dalla sua cella. Sapeva chi chiamare: una sua collega, la dottoressa Paula Kane, che avrebbe potuto trasmettere l’allarme. Tuttavia entrambi sapevano che, con tutta probabilità, cercare di impadronirsi della radio sarebbe stato una missione suicida. Ma che altro potevano fare?

Almeno Fiona era nascosta, al sicuro.

«Che aspetta?» chiese Marcia, che stava alle sue spalle, reggendo una torcia. Non aveva più il braccio legato al collo e indossava un camice da laboratorio, preso da uno degli armadietti. Al buio, poteva essere scambiata per una delle ricercatrici del laboratorio.

Gray sollevò una mano verso la prima leva.

Avevano già individuato le scale di emergenza, che portavano verso il palazzo. Ma, per uscire e raggiungere la zona di sicurezza, avevano bisogno di un diversivo.

La soluzione l’avevano trovata qualche istante prima. Appoggiato a una delle porte nel corridoio, Gray aveva notato la vibrazione e il ronzio dell’impianto elettrico che alimentava quel livello. Se fossero riusciti a far saltare la centralina principale, creando altro caos, forse accecando i loro carcerieri per un po’, avrebbero avuto una possibilità in più di arrivare a quella radio.

«Pronta?» chiese Gray.

Marcia accese la torcia. Lo guardò negli occhi, fece un respiro profondo e annuì. «Procediamo.»

«Buio», disse Gray, tirando la prima leva.

Poi un’altra, e un’altra ancora.

ore 14.35

Fiona vide le luci sfarfallare e spegnersi.

Era in piedi in mezzo al cortile, accanto a una piccola fontana. Qualche istante prima, era scivolata via dalla porta chiusa e aveva attraversato furtivamente il cortile in cerca di un’altra uscita. Doveva essercene un’altra per forzasi bloccò di colpo.

Nella sala calò un silenzio irreale, come se gli animali avessero percepito un cambiamento fondamentale, la scomparsa del ronzio subsonico perpetuo dell’elettricità. O forse intuivano semplicemente che ciò dava loro un nuovo potere. Una porta cigolò alle spalle di Fiona. Lei si voltò lentamente. Una delle gabbie di vetro e ferro in cui era chiusa una iena si era aperta. Il blackout aveva smagnetizzato le serrature. La bestia strisciò fuori dalla gabbia, grondando sangue dal muso. Era quella che stava rosicchiando l’osso. Emise un ringhio cupo.

Fiona sentì una risata sguaiata proveniente da qualche punto alle sue spalle. I predatori del serraglio si erano scambiati un messaggio silenzioso. Altre porte si aprirono cigolando sui cardini di ferro.

La ragazza rimase immobile accanto alla fontana. Anche la pompa idraulica si era fermata, mettendo a tacere l’acqua, come se temesse di attirare l’attenzione su di sé.

Da qualche parte, in una delle cappelle laterali, echeggiò un urlo acuto. Umano. Fiona immaginò che fosse l’inserviente rimproverato da Ischke. A quanto pareva, le bestie che gli erano state affidate avrebbero avuto la loro carne fresca. Sentì dei passi avvicinarsi, poi un nuovo urlo di dolore, mescolato a ululati, guaiti e latrati.

Fiona si tappò le orecchie dopo quell’ultimo urlo, seguito dal suono delle creature che si nutrivano.

Era concentrata interamente sulla prima belva che era fuggita.

La iena col muso insanguinato si stava avvicinando. Fiona riconobbe la creatura dalle screziature appena accennate sul fianco, macchie di bianco su bianco. Era la stessa della giungla.

La preferita di Ischke.

Skuld.

Prima quello zuccherino chiuso in gabbia le era stato negato.

Stavolta nessuno l’avrebbe disturbata.

ore 14.40

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