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Gray s’inginocchiò. Il ponte si dipartiva in tre diverse direzioni: il ramo di sinistra conduceva al palazzo, quello centrale costeggiava il margine della foresta sovrastando i giardini della tenuta, quello di destra s’inoltrava nel cuore della giungla.

Da che parte?

Accovacciato, Gray studiò l’inclinazione delle ombre, confrontandola alle immagini che aveva osservato attentamente sul monitor del computer. La lunghezza e la direzione delle ombre gli avevano dato un’idea della posizione della gabbia di Fiona rispetto al sole che sorgeva. Ma rimaneva comunque un’ampia area di tenuta da percorrere.

Il ponte oscillò leggermente, scosso da un pesante calpestio.

Altre guardie.

Gray si era già imbattuto in altre due squadre. Mise in spalla il fucile, rotolò sino al bordo del ponte e si lasciò ciondolare. Appeso al cavo d’acciaio, si spostò fino al ramo di un albero per ripararsi. Un attimo dopo, tre guardie marciarono rumorosamente sul ponte, facendolo dondolare. Gray si tenne forte, poi, quando gli uomini furono passati oltre, usò il ramo come appoggio per ritornare sul ponte. Mentre si dava lo slancio e sollevava una gamba, notò la vibrazione ritmica del cavo tra le sue mani. Altre guardie?

Disteso sull’assito, appoggiò un orecchio al cavo d’acciaio, restando in ascolto, come un cacciatore indiano sulla pista di un animale. La vibrazione aveva un ritmo ben distinto e percepibile, come la corda metallica di una chitarra. Tre colpi veloci, tre lenti, ancora tre veloci. E si ripeteva.

Codice morse.

SOS.

Qualcuno stava mandando un segnale tramite il cavo.

Con movimenti cauti e furtivi, Gray ritornò al bivio. Toccò gli altri cavi: soltanto uno vibrava, quello che sosteneva la diramazione che s’inoltrava nella giungla. Era possibile che…

Non avendo altri indizi, Gray s’incamminò in quella direzione, cercando di non far oscillare il ponte.

Le diramazioni si susseguivano. Gray si fermava a ogni bivio per trovare il cavo che vibrava e seguirne la traccia. Era così concentrato sul percorso che, quando si abbassò per schivare le fronde di una palma, si trovò improvvisamente davanti una guardia, a soli quattro metri di distanza. Capelli castani, sui venticinque, sembrava un membro della gioventù hitleriana. Era appoggiato al corrimano d’acciaio, voltato verso di lui. Stava già sollevando il fucile, messo in allerta dal fruscio delle foglie.

Gray non aveva abbastanza tempo per usare il suo fucile. Mentre era ancora in movimento, si gettò di lato. Non era un tentativo di schivare la pallottola in arrivo, perché l’altro non poteva mancarlo a quella distanza.

Ma, andando a sbattere sul cavo d’acciaio che fungeva da corrimano, Gray lo fece vibrare.

La guardia, che vi era appoggiata, perse l’equilibrio e la canna del suo fucile finì puntata verso il cielo. L’agente Sigma gli fu addosso in un istante, pugnale alla mano.

Gray gli impedì di urlare, infilzandogli la lama nella trachea e lacerandogli la laringe. Bastò una torsione per far zampillare il sangue dalla carotide. Sarebbe morto in pochi secondi. Gray lo prese e lo gettò oltre il corrimano. Non provò nessun rimorso, ricordando le guardie che ridevano quando Ryan era caduto nella tana del mostro. Quanti altri erano morti in quel modo? Il corpo cadde in un sussurro di foglie fruscianti, poi si schiantò nell’erba.

Accovacciato, Gray rimase in ascolto. Qualcuno aveva sentito la guardia cadere?

A sinistra, sorprendentemente vicino, una donna gridò in inglese, con accento straniero. «Smettila di dare calci alle sbarre o ti buttiamo giù subito!»

Gray riconobbe quella voce: Ischke, la gemella di Isaak.

Una voce più familiare rispose alla donna. «Vaffanculo, brutta stronza!»

Fiona.

Nonostante il pericolo, Gray sorrise, orgoglioso di quella ragazzina.

Stando basso, raggiunse la fine del ponte, che sfociava in un anello sospeso, a incoronare una radura. L’aveva già visto sul monitor. La gabbia era appesa al passaggio sopraelevato.

Fiona continuava a prendere a calci le sbarre: tre colpi veloci, tre lenti, tre veloci. Il suo volto era il ritratto della determinazione. La vibrazione, trasmessa lungo i cavi di sostegno della gabbia, arrivava fino ai piedi di Gray.

Brava ragazza.

Doveva aver sentito gli allarmi del palazzo, e forse aveva immaginato che ci fosse di mezzo lui e aveva cercato di trasmettergli un segnale; oppure era solo infuriata e il messaggio in codice non era altro che una coincidenza.

Gray individuò tre guardie, posizionate a ore due, ore tre e ore nove. Ischke, sempre abbagliante nel suo completo bianco e nero, era dall’altra parte, a ore dodici: con entrambe le mani appoggiate sul corrimano interno, guardava in basso, verso Fiona.

«Forse una pallottola nel ginocchio ti calmerà», gridò, appoggiando la mano sulla fondina della pistola.

Fiona fermò il piede a mezz’aria, borbottò qualcosa e poi lo appoggiò.

Gray calcolò le proprie possibilità. Era solo, con un fucile, contro tre guardie, tutte armate, e Ischke, con la pistola.

Una scarica di disturbi elettrostatici risuonò nella radura, seguita da parole confuse. Ischke sganciò la radio e l’avvicinò alle labbra. «Ja?» Ascoltò per mezzo minuto, fece una domanda che Gray non riuscì a sentire, poi chiuse la comunicazione. Riponendo l’apparecchio, si rivolse alle guardie: «Abbiamo nuovi ordini. Uccidiamo la ragazza, subito!»

ore 06.40

L’ukufa emise una serie di guaiti striduli, pronto a saltare addosso al ragazzo ciondolante. Khamisi sentiva la donna avvicinarsi alle sue spalle. Avendo le mani impegnate a tenere la corda, non poteva usare le sue armi.

«Chi sei?» chiese di nuovo la donna, minacciandolo col pugnale.

Khamisi fece l’unica cosa possibile. Piegando le ginocchia, si gettò oltre il corrimano d’acciaio. Mentre ruzzolava giù, si tenne forte alla corda, che fischiava attorno al palo d’acciaio. Mentre Khamisi cadeva, intravide il ragazzo che veniva proiettato verso l’alto, agitando le braccia e gridando per la sorpresa.

L’ukufa saltò verso la preda in fuga, ma il peso di Khamisi catapultò il ragazzo verso il ponte, finché non vi andò a sbattere.

L’improvvisa battuta d’arresto fece perdere la presa al guardacaccia, il quale cadde di schiena nell’erba. Più su, il ragazzo si era aggrappato ai cavi del ponte, mentre la donna fissava Khamisi con gli occhi sgranati.

A pochi metri da lui, qualcosa di grosso atterrò pesantemente.

L’ukufa balzò in piedi, ringhiando furiosamente e lanciando filamenti di saliva. Il suo sguardo rosso si posò sull’unica preda disponibile.

Khamisi non aveva il fucile, che era rimasto sul ponte. La creatura ululò, infuriata e assetata di sangue, poi gli saltò addosso, con l’intenzione di squarciargli la gola.

Khamisi afferrò la sua unica arma: la zagaglia zulù, che portava ancora legata alla coscia. Mentre l’ukufa cadeva su di lui, Khamisi sollevò la lama. Suo padre gli aveva insegnato come usarla, prima che partissero per l’Australia. Come tutti i ragazzi zulù.

Con un istinto che affondava le radici nel passato dei suoi antenati, Khamisi infilò la lama sotto le costole della creatura — un animale in carne e ossa, non mitica — e la spinse a fondo, mentre il peso della iena si abbatteva su di lui.

L’ukufa urlò. Il dolore e lo slancio lo trasportarono oltre Khamisi, che si vide strappare di mano la lancia. L’uomo rotolò via, libero e disarmato. L’ukufa si dimenava nell’erba e così la lama gli si avvitava sempre più in profondità nella carne. Gridò un’ultima volta, con un sussulto violento, poi si afflosciò.

Morto.

Lo sguardo di Khamisi fu attirato da un urlo furioso sopra la sua testa. La donna sul ponte aveva trovato il suo fucile e glielo stava puntando contro. Il colpo suonò come la detonazione di una granata. Un cespuglio esplose ai piedi dell’uomo e schizzi di terra si propagarono tutt’attorno. Khamisi arretrò. La donna aggiustò la mira, centrando meglio il bersaglio nel mirino.

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