Литмир - Электронная Библиотека

Sudafrica,

ore 05.05

Fu svegliato dalle scimmie.

Scimmie?

Quella stranezza fu sufficiente a liberarlo dalla sonnolenza. Gray si sollevò e, mentre cercava di dare un senso a ciò che lo circondava, i ricordi cominciarono ad affiorare.

Era vivo. In una cella.

Ricordò il gas, il museo di Wewelsburg, il suo bluff. Aveva bruciato la Bibbia di Darwin, sostenendo che conteneva un segreto di cui soltanto lui era a conoscenza. Sperava che la prudenza avrebbe avuto la meglio sulla vendetta. Evidentemente era andata così. Era vivo. Ma dov’erano Monk, Fiona e Ryan?

Gray scandagliò la cella: una branda, un gabinetto, un box doccia aperto, niente finestre. La porta, composta di sbarre di ferro, dava su un corridoio illuminato da lampade al neon.

Qualcuno lo aveva spogliato completamente, ma c’era una pigna ordinata di vestiti su una sedia avvitata ai piedi del letto.

Scostò la coperta e si alzò. Aveva una vaga sensazione di nausea e si sentiva i polmoni pesanti, raschiati. Erano i postumi dell’avvelenamento. Si accorse anche di un dolore profondo alla coscia. Aveva un livido grande quanto un pugno sul fianco. Tastandolo, sentì le croste di alcune punture di ago. Aveva anche un cerotto sul dorso della mano. Gli avevano applicato una flebo? Evidentemente qualcuno lo aveva curato, salvandogli la vita.

In lontananza sentì ancora una serie di grida e richiami: scimmie.

Non erano suoni provenienti da una gabbia. Sembrava il risveglio del mondo naturale.

Ma quale mondo? L’aria era più asciutta, più calda, e aveva un odore muschiato, selvatico. Si trovava in un clima molto più temperato. Forse da qualche parte in Africa. Per quanto tempo era rimasto incosciente? Non gli avevano lasciato un orologio per vedere l’ora, e tantomeno poteva sapere che giorno era. Aveva l’impressione che non fossero trascorse più di ventiquattr’ore, ma, a giudicare dalla peluria ispida che gli stava crescendo sul mento, non era stato nemmeno soltanto un breve sonnellino.

Si diresse verso la porta e fece per prendere i vestiti. I suoi movimenti attirarono l’attenzione di qualcuno.

Dalla parte opposta del corridoio, Monk si avvicinò alle sbarre della sua cella.

Gray provò un moto di sollievo, vedendo che il suo compagno era vivo. «Grazie a Dio…»

«Stai bene?»

«Un po’ intontito, ma sta passando.»

Monk era già vestito. Indossava una tuta bianca, identica a quella che avevano lasciato per lui. Gray se la infilò.

Il suo amico alzò il braccio sinistro, mostrando il moncherino e i biocontatti di titanio che normalmente collegavano il braccio alla protesi. «I bastardi si sono presi anche la mia dannatissima mano.»

Ma la scomparsa della protesi di Monk era l’ultima delle loro preoccupazioni. Anzi poteva essere persino un vantaggio.

«Fiona e Ryan?»

«Non ne ho idea. Potrebbero essere qui, in un’altra cella, oppure in un posto completamente diverso.»

Oppure morti, aggiunse Gray, tra sé.

«E ora che si fa, capo?» chiese Monk.

«Non abbiamo molta scelta. Aspettiamo che i nostri carcerieri facciano la prima mossa. Vogliono le informazioni di cui siamo in possesso. Vedremo che cosa riusciremo a ottenere in cambio.»

Monk annuì. Sapeva che Gray aveva bluffato, al castello, e che dovevano continuare il gioco. Era probabile che le celle fossero sorvegliate.

Il sospetto fu confermato dal rumore metallico di una porta che si apriva, in fondo al corridoio.

Il suono dei passi che si avvicinavano faceva pensare a un folto gruppo di persone.

Ben presto videro che si trattava di guardie con uniformi mimetiche verdi e nere, guidate dall’uomo alto dai capelli biondo platino e dalla carnagione chiara: il compratore dell’asta. Azzimato come al solito, portava pantaloni neri di twill e una camicia di lino ben stirata, anch’essa nera, mocassini bianchi di pelle e un cardigan di cachemire bianco. Sembrava abbigliato per una festa in giardino.

Le dieci guardie che lo accompagnavano si divisero in due gruppi, ciascuno diretto a una delle celle. Gray e Monk furono scortati fuori, a piedi nudi, le braccia legate dietro la schiena con lacci di plastica. Il capo si parò davanti a loro, puntando gli occhi di ghiaccio su Gray.

«Buongiorno», disse con affettazione, come se fosse attento alle telecamere nei corridoi, consapevole di essere osservato. «Mio nonno desidera incontrarvi.»

Nonostante la cortesia con cui furono pronunciate, quelle parole erano scolpite in una rabbia estrema e celavano una promessa di sofferenza. L’uomo si era visto negare la sua preda e ora aspettava l’occasione propizia. Ma qual era la vera fonte della sua ira? La morte del fratello oppure il fatto che Gray fosse stato più furbo di lui, a Wewelsburg? In un modo o nell’altro, dietro i modi affettati e la cortesia si celava una furia selvaggia.

«Da questa parte.» Si voltò e fece strada lungo il corridoio, seguito dalla scorta, da Gray e da Monk. Mentre procedevano, Gray scrutava le celle: erano vuote, non c’era traccia di Fiona e Ryan. Erano ancora vivi?

Il corridoio terminava con tre gradini, che conducevano a una porta d’acciaio. Era aperta e sorvegliata.

Uscendo, Gray si ritrovò in una sorta di paese delle meraviglie, una giungla oscura e verdeggiante, con rampicanti spinose e orchidee in fiore. La fitta vegetazione nascondeva il cielo, ma Gray intuiva che non era ancora l’alba. Più avanti, lampioni neri in stile vittoriano incorniciavano i sentieri che s’inoltravano nella giungla selvaggia. I cinguettìi e i richiami degli uccelli si mescolavano al ronzio degli insetti. Una scimmia, nascosta in cima al tetto di foglie, annunciò il loro passaggio con un richiamo staccato, simile a una serie di colpi di tosse. L’allarme svegliò un uccello dalle piume rosso fuoco, che prese il volo tra i rami più bassi.

«Africa», mormorò Monk. «Subsahariana, come minimo. Forse equatoriale.»

Gray presumeva che fosse la mattina del giorno seguente. Aveva perso dalle diciotto alle venti ore. Perciò potevano essere in qualsiasi parte dell’Africa. Ma dove, esattamente?

Le guardie li scortarono lungo un sentiero di ghiaia. Gray sentiva i passi morbidi e misurati di qualcosa di grosso che si faceva strada nella boscaglia, a qualche metro da loro. Sebbene fosse così vicino, però, non se ne intravedeva nemmeno la forma. Se fossero riusciti a fuggire, la fitta vegetazione avrebbe rappresentato un ottimo nascondiglio.

Ma non ci fu nemmeno un’opportunità. Il sentiero terminava a soltanto cinquanta metri di distanza.

Ancora qualche passo e la foresta scomparve attorno a loro, lasciando il posto a un prato ben curato e illuminato, un giardino con laghetti, ruscelli e cascate. L’acqua scorreva, gocciolava, gorgogliava, danzava. Un’antilope dalle lunghe corna alzò la testa al loro passaggio, si bloccò per un istante, poi si mise in fuga, scomparendo a grandi balzi nella foresta.

Sopra le loro teste, il cielo era punteggiato di stelle, ma verso est un bagliore rosa pallido accennava l’arrivo del mattino, forse a un’ora di distanza.

Ma un’altra vista attirò lo sguardo di Gray e assorbì interamente la sua attenzione. Al di là del giardino si ergeva un palazzo di sei piani. Costruito in pietra e legname, gli ricordava la Ahwahnee Lodge di Yosemite, ma era molto più imponente, wagneriano, una sorta di Versailles della giungla. Doveva avere una superficie di quarantamila metri quadrati e abbondava di timpani, balconi e balaustrate. Sulla sinistra c’era una serra di vetro, illuminata dall’interno, che nell’oscurità brillava come un sole nascente.

L’opulenza di quel luogo era sbalorditiva.

Si diressero verso il maniero percorrendo un sentiero di pietra che attraversava il giardino, oltrepassando alcuni stagni e ruscelli. Un serpente lungo due metri strisciava su uno dei ponti di pietra: quando sollevò la testa, aprì a ventaglio la sua corona.

76
{"b":"199848","o":1}