Ma ora ne rimaneva soltanto una.
La dottoressa Paula Kane era seduta su un divanetto, di fronte a Khamisi e al tavolino che li divideva. Aveva le lacrime agli occhi, ma le guance ancora asciutte. «Va bene», disse, mentre il suo sguardo vagava verso una parete piena di foto, panorama di una vita felice. Khamisi sapeva che le due donne erano assieme da quando avevano frequentato l’università di Oxford, molti anni prima. «Ormai non ci speravo più.»
Era una donna minuta, coi capelli brizzolati, tagliati pari all’altezza delle spalle. Sebbene fosse prossima ai sessanta, mostrava dieci anni di meno. Aveva sempre conservato una bellezza adamantina e una grande sicurezza, che non si lasciava mimetizzare neanche dal trucco. Quella mattina, però, sembrava appassita, sembrava l’ombra di se stessa, come se avesse perso qualcosa di vitale. Probabilmente aveva dormito vestita, con quei pantaloni kaki e quella camicetta bianca.
Khamisi non aveva parole per alleviare il dolore scolpito in ogni parte del corpo della donna, soltanto la sua partecipazione. «Mi dispiace.»
Paula lo guardò. «So che hai fatto tutto il possibile. Ho sentito le voci che cominciano a girare. Una donna bianca muore, ma il nero sopravvive. A certi elementi di qui non andrà giù.»
Khamisi sapeva che la donna si riferiva al capo guardacaccia. Paula e Marcia si erano scontrate molte volte con quell’uomo. Lei conosceva i legami e le affiliazioni del sovrintendente come tutti gli altri. Forse l’apartheid era stato eliminato nelle città e nelle township, ma nella savana il mito del Grande Cacciatore Bianco continuava a regnare supremo.
«Tu non sei responsabile della morte di Marcia», proseguì Paula, leggendogli qualcosa in viso.
Lui distolse lo sguardo. Apprezzava la sua comprensione, ma le accuse del sovrintendente avevano rintuzzato un senso di colpa già latente. Razionalmente sapeva di aver fatto tutto il possibile per proteggere la dottoressa Fairfield. Ma lui ne era uscito vivo, e lei no. Quelli erano i fatti.
Khamisi si alzò. Non voleva disturbare oltre. Era andato lì per rendere i suoi omaggi e per dire di persona alla dottoressa Kane che cosa era accaduto. «Ora devo andare.»
Paula si alzò e lo accompagnò alla porta a zanzariera. Lo fermò con una mano, prima che uscisse. «Secondo te, che cosa è stato?»
Lui si voltò verso di lei.
«Che cosa l’ha uccisa?» insistette Paula.
Khamisi guardò fuori: c’era troppa luce per parlare di mostri. In più, gli era stato vietato di riferire particolari della faccenda. C’era in ballo il suo lavoro.
Guardò Paula e le disse la verità. «Non è stata una leonessa.»
«E allora che cosa?»
«Lo scoprirò.»
Spinse la porta e scese i gradini. Il suo piccolo pick-up arrugginito era parcheggiato sotto il sole. Lo raggiunse, salì nell’abitacolo rovente e prese la strada di casa.
Per la centesima volta, rivisse il terrore della giornata precedente. Sentiva a fatica il rombo del motore, sovrastato dall’eco delle urla dell’ukufa nella sua testa. Non era una leonessa. Non ci avrebbe mai creduto.
Raggiunse gli alloggi destinati allo staff del parco, una schiera di costruzioni improvvisate su palafitte senza aria condizionata. Sollevando una nuvola di polvere rossa, parcheggiò di fronte al cancello di casa sua.
Esausto, aveva intenzione di riposare per qualche ora. Poi sarebbe andato in cerca della verità.
Sapeva già dove cominciare le indagini.
Ma l’avrebbe fatto più tardi.
Mentre si avvicinava alla recinzione del cortile davanti alla casa, notò che il cancello era socchiuso. Si assicurava sempre di chiuderlo col paletto, quando usciva, ogni mattina. D’altra parte, dopo l’annuncio della loro scomparsa, la notte precedente, era possibile che qualcuno fosse andato a cercarlo a casa.
Ma i sensi di Khamisi erano ancora in allerta, fin dal momento in cui aveva sentito quel primo urlo nella giungla. Dubitava persino che quella condizione potesse mai cambiare.
S’infilò nel cortile. Notò che la porta d’ingresso sembrava chiusa e vide la posta che sporgeva dalla cassetta delle lettere: non era stata toccata. Salì i gradini, uno alla volta.
Avrebbe voluto avere un pugnale o una pistola.
Sentì uno scricchiolio. Non proveniva dai gradini sotto i suoi piedi, ma dalle tavole del pavimento, dentro la casa.
I suoi sensi gli dicevano di fuggire.
No. Stavolta no.
Raggiunse il portico, si mise a lato della porta e controllò il catenaccio.
Non era chiuso a chiave.
Lo sganciò e spinse la porta. Sentì scricchiolare il pavimento un’altra volta, in fondo alla casa.
«Chi è?»
Himalaya,
ore 08.25
«Vieni a vedere.»
Painter si svegliò di soprassalto, subito vigile. Un dolore lancinante lo pugnalava tra gli occhi. Scivolò giù dal letto, già vestito. Non si era reso conto di essersi addormentato. Lui e Lisa erano ritornati in camera qualche ora prima, scortati dalle guardie. Anna doveva sbrigare qualche faccenda e procurare alcune cose che Painter aveva richiesto.
«Quanto ho dormito?» chiese, sentendo svanire lentamente il mal di testa.
«Scusa, non sapevo che dormissi.» Lisa era seduta a gambe incrociate di fronte al focolare, accanto a un tavolino con fogli di carta sparsi sopra. «Non può essere più di quindici, venti minuti. Volevo che tu vedessi questo.»
Painter si alzò. La stanza vacillò per un istante, poi si riassestò. Per niente bene. Raggiunse Lisa e si lasciò cadere accanto a lei.
Notò la macchina fotografica appoggiata sui fogli.
Lisa aveva chiesto che le fosse restituita la sua Nikon, come primo atto di cooperazione da parte dei loro carcerieri. Fece scivolare un foglio di carta verso di lui. «Guarda.»
Ci aveva disegnato una serie di simboli: erano le rune che Lama Khemsar aveva scarabocchiato sulla parete. Lisa doveva averle copiate dalla foto digitale. Painter vide che sotto ogni simbolo era scritta una lettera corrispondente.
«Era un semplice codice a sostituzione. Ogni runa rappresenta una lettera dell’alfabeto. È bastato fare qualche tentativo.»
«Schwarze Sonne», lesse lui ad alta voce.
«Sole Nero. Il nome del progetto nazista.»
«Perciò Lama Khemsar ne era al corrente.» Painter scosse la testa. «Il vecchio buddista aveva i suoi contatti, da queste parti.»
«Ed evidentemente ne è rimasto traumatizzato.» Lisa prese il foglietto. «La follia deve avere risvegliato antiche ferite.»
«O forse il Lama ha cooperato sin dall’inizio e il monastero era una sorta di avamposto di guardia del castello.»
«Se è andata così, guarda quanto gli è valsa, la cooperazione», commentò Lisa con un tono pungente. «È forse indicativo della ricompensa che otterremo noi?»
«Non abbiamo scelta. È l’unico modo per restare in vita: essere necessari.»
«E poi? Quando non saremo più necessari?»
Painter non volle alimentare nessuna illusione. «Ci uccideranno. Cooperando guadagneremo soltanto un po’ di tempo.»
Painter notò che Lisa non cercava di sfuggire alla realtà, anzi sembrava che ne traesse forza. Drizzò le spalle, mostrandosi risoluta. «Allora, che cosa facciamo per prima cosa?»
«Riconosciamo il primo passo di ogni conflitto.»
«E cioè?»
«Conosci il tuo nemico.»
«Penso di sapere già troppo di Anna e della sua ciurma.»
«No, parlavo di scoprire chi c’è dietro l’esplosione della notte scorsa. Il sabotatore, o chiunque l’abbia ingaggiato. Sta succedendo qualcosa, qui. Quei primi atti di sabotaggio, le manomissioni dei controlli di sicurezza della Campana, le prime malattie… avevano lo scopo di incuriosirci. Di sollevare un po’ di fumo e attirarci qui, con quelle voci di strane malattie.»