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Gray scosse la testa.

Non potevano mancare ancora in molti.

Una lunga limousine nera si fermò davanti alla casa d’aste e ne scesero due sagome. Uomo e donna, entrambi alti e snelli, indossavano abiti Armani appaiati. Lui portava una cravatta color azzurro-verde, lei una camicetta di seta in tinta. Erano entrambi giovani, sui venticinque anni, ma dal contegno sembravano molto più anziani. Forse erano i capelli chiarissimi, di un platino smagliante, corti, come incollati sulla testa in un’acconciatura quasi identica: sembravano una coppia di star del cinema muto degli anni ruggenti. Tenevano un atteggiamento che conferiva loro una grazia senza età. Non sorridevano, ma non erano nemmeno freddi. Come si notava anche nelle foto, avevano uno sguardo cordiale e divertito.

Il portiere aprì loro la porta. Entrambi fecero un cenno di ringraziamento, ancora una volta non eccessivamente caloroso, ma mostrando riconoscenza per il gesto dell’uomo. Poi scomparvero all’interno dell’edificio. Il portiere entrò dietro di loro, voltando un cartello. Evidentemente quei due erano gli ultimi, forse anche la causa principale del ritardo dell’asta.

Chi erano?

Gray mise da parte la curiosità. Aveva ordini chiari da Logan Gregory.

Passò in rassegna le fotografie, per assicurarsi di avere immagini nitide di tutti i partecipanti. Soddisfatto, fece una copia del file su una chiave USB e se la mise in tasca. A quel punto non gli restava altro da fare che attendere la fine dell’asta. Logan aveva fatto in modo di ottenere un elenco dei pezzi in vendita e dei nomi degli acquirenti. Sicuramente alcuni si sarebbero rivelati alias, ma le informazioni sarebbero state condivise con la task force antiterrorismo degli USA, l’Europol e l’Interpol. Forse Gray non avrebbe mai saputo che cosa fosse in gioco veramente.

Per esempio, perché era stato aggredito? Perché Grette Neal era stata uccisa?

Si sforzò di rilasciare il pugno chiuso. C’era voluto tutto il pomeriggio, ma, in uno stato d’animo più tranquillo, Gray aveva accettato i limiti impostigli da Logan. Non aveva idea di che cosa stesse veramente succedendo e agire alla cieca, in modo affrettato, avrebbe potuto causare soltanto altre vittime.

Tuttavia aveva passato la maggior parte del pomeriggio camminando avanti e indietro nella sua camera d’albergo, rivedendo nella mente infinite volte gli eventi degli ultimi giorni.

Se solo avesse fatto più attenzione e preso maggiori precauzioni…

Il cellulare gli vibrò in tasca. Mentre lo estraeva, guardò il numero sul display. Grazie a Dio. Aprì il telefonino, si alzò e si avvicinò alla balaustra del balcone. «Sara, sono felice che tu abbia richiamato.»

«Ho ricevuto il tuo messaggio. Tutto bene?»

La sua voce esprimeva sia la preoccupazione personale sia l’interesse professionale a un resoconto più dettagliato. Gray le aveva mandato soltanto un breve SMS, avvisandola che avrebbero dovuto cancellare il loro rendez-vous. Non era entrato nei dettagli. Sebbene avessero una relazione, c’erano di mezzo i nullaosta di sicurezza.

«Sto bene. Ma Monk sta per raggiungermi. Sarà qui poco dopo mezzanotte.»

«Io sono appena arrivata a Francoforte. Avevo una coincidenza per Copenhagen. Ho sentito il messaggio dopo che siamo atterrati.»

«Mi spiace, davvero…»

«Perciò devo tornare indietro?»

Lui temeva di coinvolgerla in qualsiasi modo. «Sarebbe meglio. Dovremo rimandare. Forse, se le cose si calmano da queste parti, potrò fare un salto a Roma per venirti a trovare, prima di ritornare in America.»

«Mi piacerebbe.»

Gray percepì la delusione nella sua voce. «Rimedierò», Sperava veramente di poter mantenere la promessa.

Sara sospirò. Non c’era irritazione, soltanto comprensione. Nessuno dei due era ingenuo riguardo alla loro relazione a distanza. Due continenti, due carriere… Ma erano disposti a lavorarci, per vedere come sarebbe andata a finire. «Speravo che avessimo occasione di parlare.»

Gray sapeva che cosa intendeva, riusciva a leggere tra le righe. Ne avevano passate parecchie assieme, avevano visto i lati migliori e i lati peggiori l’uno dell’altra, eppure, nonostante la difficoltà di una relazione a distanza, nessuno dei due aveva voluto gettare la spugna. Anzi entrambi sapevano che era il momento di discutere del passo successivo.

Accorciare quella distanza.

Probabilmente era uno dei motivi per cui erano stati separati così a lungo dopo l’ultimo incontro: una specie di tacito accordo sul fatto che avevano bisogno di pensare. Era il momento di mettere le carte in tavola, decidere se andare avanti oppure no.

Ma lui ce l’aveva, una risposta? Amava Sara. Era pronto a trascorrere la vita con lei. Avevano parlato anche di avere figli. Eppure qualcosa lo turbava. Quasi gli procurava sollievo che l’appuntamento fosse rinviato. Non era una cosa banale, una semplice paura. Ma cos’era, allora?

Forse era meglio che parlassero davvero.

«Verrò a Roma, te lo prometto.»

«Ti prendo in parola. Terrò in caldo i vermicelli alla panna di zio Vittorio.» Gray sentì la tensione allentarsi nella sua voce. «Mi manchi. Noi…»

La frase fu interrotta dal suono stridente di un clacson.

Gray guardò giù in strada. Una persona stava attraversando di fretta due corsie, incurante del traffico: era una donna con una giacca di cachemire, un abito lungo fino alle caviglie e i capelli raccolti in uno chignon. Quasi non l’aveva riconosciuta, finché non la vide inveire contro l’automobilista che aveva suonato il clacson.

Fiona.

Che diavolo ci faceva lì?

«Gray?» disse Sara all’altro capo del telefono.

«Scusami, devo andare.» Riagganciò, mettendo in tasca il cellulare.

Giù in strada, Fiona corse verso la casa d’aste ed entrò. Gray si precipitò al computer. La microcamera riprese l’immagine della ragazza attraverso il vetro dell’ingresso. Stava discutendo col portiere. Infine, l’uomo in uniforme guardò un foglio che lei gli aveva cacciato in mano e, accigliato, le fece cenno di procedere.

Fiona gli passò davanti come un treno e scomparve. La microcamera si oscurò.

Gray guardò alternativamente lo schermo e la strada.

Logan non sarebbe stato contento. Nessuna azione avventata. D’altra parte, che cosa avrebbe fatto Painter Crowe, al suo posto?

Gray tornò in camera e si tolse i vestiti informali. L’abito elegante era disteso sul letto, pronto per ogni evenienza.

Painter sicuramente non sarebbe stato seduto tranquillo senza fare nulla.

Himalaya,

ore 22.22

«Dobbiamo restare calmi», disse Painter. «Resta seduta.»

Davanti a loro, le luci spettrali continuavano ad apparire e scomparire, fredde e silenziose, accendendo la cascata ghiacciata di una lucentezza sconvolgente. Nell’oscurità che seguiva, la grotta sembrava più fredda e più nera.

Lisa si avvicinò a lui. Gli prese la mano e la strinse forte. «Non c’è da meravigliarsi che non si siano dati pena di seguirci», sussurrò, ansimando per la paura. «Perché darci la caccia nella tormenta, quando non devono fare altro che accendere quelle dannate luci e irradiarci? A quelle non possiamo sfuggire.»

Painter si rese conto che aveva ragione. Una volta impazziti sarebbero stati indifesi. In un simile stato di follia il territorio insidioso e il gelo li avrebbero uccisi con la stessa infallibilità dei proiettili di un cecchino.

Ma lui si rifiutava di abbandonare la speranza.

Ci volevano diverse ore perché subentrasse la follia. Non le avrebbe sprecate. Se fossero riusciti a trovare aiuto in tempo, forse ci sarebbe stato un modo per neutralizzare gli effetti.

«Ce la faremo», replicò goffamente.

Non fece che irritarla di più. «Come?» chiese lei, guardandolo, mentre le luci esplodevano di nuovo, rivestendo la caverna della lucentezza di un diamante. Negli occhi di Lisa c’era meno terrore di quanto lui avesse immaginato. Aveva paura, giustamente, ma il suo sguardo conservava un certo splendore, anch’esso diamantino. «Non fare il paternalista con me.» Lisa sfilò la mano dalla sua. «È l’unica cosa che ti chiedo.»

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