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— Madre mia! — esclamò Tom il Matto. — Neppure le Salamandre sono uscite dalla loro porta.

Ender si portò un dito alle labbra, ordinando il silenzio. Con la porta aperta gli avversari avrebbero potuto udire ogni loro parola. Con un dito indicò attorno alla porta, dove senza alcun dubbio l’orda nemica era andata ad appostarsi, a ridosso della parete e pronta a far fuori all’istante chiunque fosse emerso in sala.

Ender li spinse tutti indietro di una dozzina di passi. Poi fece uscire dai ranghi alcuni dei ragazzi più alti, incluso Tom il Matto, e sussurrò loro di accovacciarsi, non in ginocchio ma con le gambe tese in avanti, in modo che formassero una L con il corpo. Li congelò con un colpo ciascuno. L’orda lo fissava in silenzio. Scelse il ragazzo più piccolo, gli consegnò anche la pistola di Tom il Matto e lo fece inginocchiare sulle gambe congelate di Tom. Poi mise le mani di Bean, ognuna armata di pistola, sotto le ascelle dell’altro.

Adesso i ragazzi cominciavano a capire: Tom era uno scudo, un’astronave, e Bean l’addetto alle batterie di bordo. Il piccoletto non era certo invulnerabile, ma avrebbe avuto il tempo di sparare.

Ender assegnò due ragazzi al compito di scaraventare Tom e Bean fuori dalla porta, ma segnalò loro di aspettare. Passò attraverso i compagni e in fretta li suddivise in gruppi di quattro: uno scudo, un tiratore, e due addetti al lancio. Poi, quando tutti furono chi congelato, chi armato e chi pronto a dare la spinta, segnalò a questi ultimi di sollevare il loro carico, scagliarlo oltre la porta e quindi di balzare in sala, anche’essi abbracciati in modo che almeno uno avesse riparo.

— Pronti… scattare! - gridò Ender.

L’orda dei Draghi scattò. Due alla volta le coppie scudo-tiratore volarono fuori dalla porta, posizionate in modo che lo «scudo» volgesse la schiena al nemico. Le Salamandre aprirono il fuoco all’istante, ma la maggior parte dei colpi intercettava soltanto il ragazzo congelato. E nel frattempo, con due pistole al lavoro e i loro bersagli pulitamente allineati lungo la parete spoglia, i Draghi riuscirono a fare il tiro a segno su degli avversari immobili e del tutto scoperti. Sbagliare era quasi impossibile.

Ma furono i lanciatori a giocare lo scherzo più sporco alle Salamandre, perché «Mosca» Molo e il suo compagno ebbero l’idea di uscire con un lieve saltello appena, e poi si respinsero l’un l’altro, volando di lato rasente alla parete della porta. I successivi li imitarono, mirando alle Salamandre da un’angolazione diversa, cosicché gli uomini di Bonzo non seppero se sparare alle coppie scudo-tiratore in allontanamento o a quelli che li assalivano lungo le loro stesse file.

Per il momento in cui anche Ender balzò in sala, la battaglia era già finita. Era trascorso sì e no un minuto dal momento in cui era uscito il primo Drago a quello in cui le pistole avevano taciuto. L’orda dei Draghi contava venti fra congelati e del tutto disabilitati, e solo dodici ragazzi ancora intatti. Quella era la loro peggiore percentuale di danni subiti, ma avevano vinto.

Quando il maggiore Anderson uscì a consegnargli il radiogancio, Ender non poté nascondere la sua rabbia. — Credevo che ci avreste dato la possibilità di affrontare un’orda in uno scontro leale!

— Congratulazioni per la vittoria, comandante.

— Bean! — sbottò Ender. — Se il comandante dell’orda delle Salamandre fossi stato tu, cos’avresti fatto?

Nei pressi della porta nemica dov’era finito, colpito alle braccia ma non del tutto congelato, Bean gridò: — Avrei messo delle vedette per guardare dentro la porta dei Draghi. E non sarei stato così idiota da tener fermi i miei uomini, visto che il nemico sapeva dove trovarli.

— Visto che vi date all’imbroglio — disse Ender a Anderson, — perché non insegnate alle altre orde a imbrogliare con intelligenza?

— Ti suggerisco di scongelare i tuoi soldati — disse Anderson.

Ender fece uso dell’apparecchietto per rimettere in attività entrambe le orde contemporaneamente. — Draghi in libertà! — ordinò subito dopo. Non ci sarebbe stata nessuna formazione schierata per salutare l’uscita degli avversari sconfitti. Quella non era stata una battaglia leale, perché se pure avevano vinto era chiaro che gli insegnanti avevano mirato a farli soccombere, ed era stata soltanto l’inettitudine di Bonzo a salvarli. Non c’era né onore né gloria in cosa simile.

Fu solo mentre usciva dalla sala di battaglia che Ender, ripensando all’espressione di Bonzo, capì che l’altro non gli avrebbe neppure riconosciuto il diritto d’essere adirato con gli insegnanti. L’onore spagnolo. Bonzo avrebbe masticato veleno inchiodato a ben altri pensieri: era stato sconfitto quando le probabilità erano tutte a suo favore, era stato sconfitto da dei novellini perdendo la faccia di fronte agli altri comandanti, era stato sconfitto da un avversario che prima di uscire non gli aveva neppure teso la mano per salvare almeno le apparenze. Se Bonzo non lo avesse già odiato per altri motivi, questo sarebbe bastato; ma poiché lo odiava ora quel sentimento si sarebbe mutato in una rabbia omicida. Ha cominciato a detestarmi quando le sue soperchierie non mi umiliavano abbastanza, pensò Ender. Queste sono cose che uno come Bonzo non dimentica.

E certo non aveva dimenticato il giorno in cui s’era unito ad altri ragazzi anziani per aggredire i novellini che si allenavano con lui. Quei veterani se l’erano legata al dito. Se loro bramano la vendetta, Bonzo avrà addirittura sete di sangue. Per un po’ Ender si trastullò con l’idea di tornare da lui per scusarsi di non avergli stretto la mano, ma con due battaglie alle spalle nello stesso giorno si sentiva seccato e stanco, assillato dalla mancanza di tempo, e scrollò le spalle. Gli insegnanti mi hanno messo in questa situazione, si disse, penseranno loro a controllarne le conseguenze.

Bean si lasciò cadere sulla cuccetta con un sospiro esausto. Metà dei suoi compagni erano già addormentati, e c’erano ancora quindici minuti prima che le luci si spegnessero. Stancamente tirò fuori il suo banco dall’armadietto e lo accese. L’indomani c’era un esame di geometria che l’avrebbe trovato miseramente impreparato. Se avesse avuto qualche ora in più sarebbe riuscito a sfangarsela in qualche modo, e aveva letto Euclide prima ancora di compiere i cinque anni, ma l’esame aveva un limite di tempo e la necessità di pensare in fretta lo avrebbe fatto affogare. Era lì per studiare e stava affogando nell’ignoranza, nella fretta, nella stanchezza. E l’esame sarebbe stato un disastro. Ma quel giorno avevano vinto due volte, e questo lo faceva sentire a posto.

Appena lo schermo si accese, tuttavia, ogni pensiero sull’esame svanì. Al centro di esso era comparso un messaggio:

VOGLIO VEDERTI SUBITO — ENDER

L’orologio segnava le 2150, solo dieci minuti all’ora in cui spegnevano le luci. Da quanto tempo era arrivato il messaggio di Ender? Comunque fosse, non poteva ignorarlo. Poteva esserci un’altra battaglia il mattino dopo (il pensiero lo fece gemere) e di qualunque argomento Ender volesse parlargli la cosa andava fatta subito. Così Bean si trascinò giù dalla cuccetta e continuando a sospirare percorse i corridoi deserti fino alla camera di Ender. Bussò alla porta.

— Vieni dentro — fu invitato.

— Ho visto adesso il tuo messaggio.

— Bene — disse Ender.

— Fra poco spengono le luci.

— Ti aiuterò a ritrovare la strada al buio. OK?

— È solo che non so se sapevi che ore erano quando…

— Io so sempre che ore sono.

Bean si tenne in bocca il mugolio che avrebbe voluto emettere. Erano alle solite. Qualunque conversazione avesse con Ender, sempre si tornava su quel tasto. Quello che Bean odiava. Lui era pur capace di riconoscere la genialità di Ender, e per questo lo stimava. Perché Ender non riusciva mai a vedere niente di buono in lui?

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