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È come riprendersi da uno stordimento. Non so bene dove sono e cosa sto facendo.

— Chiedo scusa — dico — devo aver perso il filo per un momento. Potrebbe ripetere, per favore?

Lei mi guarda stupita, poi i suoi occhi si spalancano.

— Lou, ti senti bene?

— Mi sento benissimo — dico. — Magari sarò un poco confuso.

— Sai chi sei?

— Naturalmente — dico. — Sono Lou Arrendale. — Non so perché la donna pensi che non sappia il mio nome.

— Sai dove ti trovi?

Mi guardo intorno. Lei porta un camice bianco; la stanza ha l'aria di essere un ambiente tipico di una clinica o di una scuola. Non ne sono sicuro.

— Non esattamente — dico. — Qualche genere di clinica?

— Sì — dice lei. — Sai che giorno è oggi?

Di colpo mi rendo conto di non sapere che giorno sia. C'è un calendario sulla parete, e un grande orologio, ma benché il mese indicato sia febbraio, non mi pare giusto. Il mio ultimo ricordo è di una giornata d'autunno.

— No — dico. Sto cominciando a sentirmi impaurito. — Cosa è successo? Mi sono ammalato, ho avuto un incidente o che cosa?

— Hai avuto un'operazione al cranio — spiega lei. — Ricordi qualcosa in proposito?

No. C'è una nebbia densa nella mia testa quando cerco di pensarci, una nebbia scura e pesante. Mi tasto il capo. Non fa male. Non avverto alcuna cicatrice. I miei capelli ci sono tutti.

— Come ti senti? — domanda la donna.

— Terrorizzato — dico. — Voglio sapere cos'è avvenuto.

Sono stato in piedi e ho camminato, mi dicono, per un paio di settimane: andavo dove mi dicevano, sedevo dove mi dicevano. Adesso sono conscio di questo: ricordo la giornata di ieri, benché i giorni precedenti siano nebulosi.

Nel pomeriggio sono sotto trattamento fisioterapico. Sono rimasto a letto per settimane, senza poter camminare, e questo mi ha indebolito. Adesso mi vado rinforzando.

È noioso camminare avanti e indietro nella palestra. C'è anche una serie di gradini con una ringhiera, per esercitarsi a salire e scendere le scale, ma anche questo ben presto diventa noioso. Missy, la mia fisioterapista, suggerisce che giochiamo a palla. Io non ricordo come si fa, ma lei mi dà una palla e mi chiede di lanciargliela. Lei sta seduta a poca distanza. Le lancio la palla e lei me la rilancia. È facile. Mi sposto all'indietro e le lancio di nuovo la palla. Anche questo è facile. Missy mi mostra un bersaglio con un campanello che dovrà squillare se faccio centro. È facile centrarlo da tre metri; da sei metri sbaglio poche volte, poi lo centro sempre.

Anche se non ricordo molto del passato, ho l'impressione che non trascorrevo il tempo lanciando una palla a qualcuno e facendomela rilanciare. Un vero gioco alla palla, se persone vere lo praticano, dovrebbe essere più complicato di così.

Questa mattina mi sono svegliato riposato e più forte. Ho ricordato la giornata di ieri e il giorno prima e qualcosa del giorno ancora prima. Mi sono vestito prima che l'inserviente, Jim, venisse a controllarmi; e sono sceso in sala da pranzo senza bisogno che nessuno m'indicasse dov'era. La colazione è noiosa: ci sono solo cereali caldi o freddi, banane e arance. Quando si sono ordinati cereali caldi con banane o con arance, oppure cereali freddi con banane o con arance la scelta è esaurita. Guardandomi intorno ho riconosciuto diverse persone, benché mi ci sia voluto un minuto per rammentare i loro nomi: Dale, Eric, Cameron. Li conoscevo da prima. Anche loro erano nel gruppo che si sottoponeva al trattamento. Ce n'erano anche altri: mi chiedo dove siano.

— Santo cielo, mi piacerebbe qualche frittella — ha detto Eric quando mi sono seduto al tavolo. — Sono così stanco di mangiare sempre le stesse cose.

— Forse potremmo domandarne altre — ha detto Dale, ma voleva dire "tanto non servirà a niente".

— Probabilmente questa roba è salutare — ha supposto Eric. Faceva dell'ironia e abbiamo riso tutti.

Io non sapevo con precisione cosa volevo, ma certo non volevo i soliti cereali e la solita frutta. Mi passavano per la mente vaghi ricordi di cibi che mi erano piaciuti. Mi chiedevo cosa ricordassero gli altri. Sapevo di conoscerli in qualche modo, ma non in quali circostanze.

Siamo tutti sottoposti a svariate terapie nella mattinata: rieducazione al discorso, rieducazione cognitiva, rieducazione alla vita quotidiana. Ho ricordato, benché con scarsa chiarezza, di aver percorso questa routine per parecchio tempo.

Questa mattina mi è sembrata incredibilmente noiosa. Domande su domande e istruzioni su istruzioni. Lou, cos'è questo? Una ciotola, un bicchiere, un piatto, una brocca, una scatola… Lou, metti il bicchiere giallo nel cestino azzurro… o il fiocco verde sulla scatola rossa, o fa' una costruzione con i blocchetti o qualche altra cosa ugualmente inutile. La terapista aveva un modulo sul quale faceva delle annotazioni. Ho cercato di leggerne l'intestazione, ma è difficile leggere le lettere capovolte. Credo però che una volta lo facessi senza difficoltà. Ho letto le etichette sulle scatole invece: MANIPOLAZIONI PER LA DIAGNOSTICA: SERIE 1, MANIPOLAZIONI PER LA RIEDUCAZIONE ALLA VITA QUOTIDIANA: SERIE 2.

Ho fatto scorrere lo sguardo per la stanza. Non stavamo facendo tutti le stesse cose, ma stavamo tutti lavorando insieme a un terapista personale. Tutti i terapisti indossavano camici bianchi, ma tutti avevano anche abiti colorati sotto i camici. All'estremità opposta della stanza c'erano dei tavoli sui quali stavano quattro computer. Mi sono chiesto perché non li adoperiamo mai. Adesso ho ricordato, più o meno, cosa sono i computer e cosa potevo fare io con essi. Sono scatole colme di parole, numeri e illustrazioni, ed è possibile fare in modo che rispondano a domande. Preferirei molto che fosse una macchina a rispondere alle domande piuttosto che dover essere io a farlo.

— Potrei adoperare il computer? — chiedo a Janis, la mia terapista del discorso.

Lei è parsa sbigottita. — Usare il computer? Per fare che?

— Quel che stiamo facendo è noioso — spiego. — Tu continui a rivolgermi domande sciocche e a dirmi di fare cose sciocche e troppo facili.

— Lou, ma è per aiutarti. Abbiamo bisogno di controllare il tuo livello di comprensione… — Mi guarda come se fossi un bambino o uno stupido.

— Conosco le parole di tutti i giorni; è questo che vuoi sapere?

— Sì, ma non le conoscevi quando ti sei svegliato — dice lei. — Guarda, se vuoi posso passare a un livello più avanzato… — Tira fuori un altro libretto che contiene dei test. — Vediamo se sei pronto per questo; ma se dovesse essere troppo difficile non te ne preoccupare…

Devo accoppiare delle parole alle illustrazioni corrispondenti. Lei legge le parole e io guardo le illustrazioni. È facilissimo; finisco in un paio di minuti. — Se mi lasciassi leggere le parole farei più presto — dico.

Lei sembra di nuovo molto sorpresa. — Sai leggere le parole?

— Ma certo — rispondo, meravigliato per la sua sorpresa. Sono un adulto, e gli adulti sanno leggere. Provo però una sensazione di disagio dentro di me… un vago ricordo di non essere stato capace di leggere le parole, di lettere che erano segni senza senso, solo sagome come altre sagome… — Non sapevo leggere, prima?

— Sì, ma non hai letto subito, dopo… — dice lei. Mi porge un'altra lista e la pagina d'illustrazioni. Le parole sono brevi e semplici: albero, bambola, casa, automobile, treno. Poi mi porge un'altra lista, questa di animali, poi ancora un'altra di attrezzi. Sono tutte facili.

— Allora mi sta tornando la memoria — dico. — Rammento queste parole e queste cose…

— Pare davvero così — annuisce lei. — Vuoi che facciamo qualche prova di comprensione della lettura?

— Certo — dico.

Mi porge un libriccino smilzo. Il primo paragrafo è una storia di due ragazzini che giocano a baseball. Le parole sono facili; le sto leggendo a voce alta, come lei mi ha chiesto di fare, quando di colpo mi sento come due persone che leggano le stesse parole e ci trovino due diversi significati. Mi interrompo.

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