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— Quale cosa, un fulmine a ciel sereno che ci renda normali? — domanda Dale. — Temete che noi ci ammaliamo di normalità galoppante così da diventare soggetti inadatti al trattamento?

— No, no — dice il dottore. — Pensavo più a cambiamenti di politica…

Mi chiedo quali siano le idee del governo in proposito. Ma i governi pensano? Sta forse per succedere qualcosa, qualche nuovo regolamento o mutamento di orientamenti politici, che possa rendere impossibile questa ricerca entro pochi mesi?

Su questo punto posso informarmi quando tornerò a casa. Se ne domandassi a quest'uomo, non credo che mi darebbe una risposta onesta.

Quando usciamo camminiamo fuori tempo gli uni rispetto agli altri. Di solito abbiamo un modo di combaciare, di conformarci alle particolarità reciproche, quando ci muoviamo in gruppo. Adesso ci muoviamo senza armonia. Posso percepire la confusione, la collera. Nessuno parla. Io non parlo. Non voglio parlare con questi che sono stati i miei colleghi più stretti per tanti anni.

Tornati al nostro edificio, ognuno di noi si affretta a dirigersi verso il proprio ufficio. Io siedo e allungo una mano verso il ventilatore. Ma mi fermo e poi mi domando perché mi sono fermato.

Non voglio lavorare. Voglio pensare a ciò che quelli vogliono fare del mio cervello e a quello che veramente significa. Significa più di quanto loro dicano. E ogni cosa che dicono ha significati nascosti.

I testi mi dicono che il mio cervello funziona molto bene, perfino così com'è, e che è assai più facile rovinare le funzioni del cervello che restaurarle. Se le persone normali riescono davvero a fare tutto ciò che si sostiene facciano, sarebbe bello avere le loro stesse capacità; ma io non sono sicuro che le abbiano.

Non sempre riescono a capire perché gli altri fanno ciò che fanno. Questo appare evidente quando discutono delle loro ragioni, delle loro motivazioni. Una volta io sentii una persona dire a un bambino: — Tu fai questo solo per farmi arrabbiare. — E invece era chiaro che il bambino lo stava facendo perché gli piaceva farlo, non si curava per nulla dell'effetto della sua azione sull'adulto. Anche a me è capitato di non curarmi di alcune cose, perciò posso riconoscere questo atteggiamento negli altri.

Il mio telefono squilla. — Lou, sono Cameron. Vuoi venire a cena a mangiare una pizza?

— È giovedì — dico. — Alla pizzeria ci sarà Ciao-Sono-Jean.

— Io, Chuy e Bailey ci andiamo lo stesso, per parlare. Linda non viene. Dale non viene.

— Io non so se desidero venire — dico. — Ci penserò. Quando vorreste andare?

— Alle cinque — dice lui.

— Ci sono posti dove non è bene parlare di questo — dico.

— La pizzeria non è uno di quei posti — dice Cameron.

— Molta gente sa che andiamo lì.

— Sorveglianza? — chiede Cameron.

— Sì. Ma è bene andare lì, perché ci andiamo spesso. Poi c'incontreremo altrove.

— Al Centro.

— No — dico io, pensando a Emmy. — Non voglio andare al Centro.

— Tu piaci a Emmy — dice Cameron. — Lei non è molto intelligente, però le piaci.

— Non stiamo parlando di Emmy — dico.

— Stiamo parlando del trattamento — dice Cameron. — Io non so dove andare eccetto al Centro.

Penso a diversi posti, ma sono tutti pubblici. Non possiamo parlare di questo argomento in posti pubblici. Infine dico: — Potreste venire nel mio appartamento. — Non ho mai invitato Cameron nel mio appartamento… non ci ho mai invitato nessuno.

Lui rimane a lungo in silenzio. Neppure lui mi ha mai invitato a casa sua. Finalmente dice: — Io verrò. Non so cosa faranno gli altri.

— Io verrò a cena con voi — decido.

Non posso lavorare. Accendo il ventilatore e girandole e spirali si mettono in moto, ma i bagliori ammiccanti e luccicanti non mi calmano. Non riesco a pensare ad altro che al trattamento che incombe su di noi. È come l'immagine di un'ondata oceanica che torreggia su qualcuno ritto su una tavola da surf. Il surfista esperto potrà sopravvivere, ma l'inesperto verrà schiacciato. Come faremo a cavalcare quest'onda?

Scrivo e stampo il mio indirizzo e l'itinerario per arrivare a casa mia partendo dalla pizzeria. Guardo sulla mappa della città per essere sicuro di non sbagliare.

Alle cinque spengo il ventilatore, mi alzo ed esco dall'ufficio. Per ore non ho combinato nulla di utile. Mi sento cupo e pesante. Fuori fa freddo e rabbrividisco. Entro nella mia macchina, consolato dalle quattro gomme sane, dal parabrezza intatto e dal motore che si accende appena giro la chiave. Ho spedito alla mia compagnia di assicurazione una copia del rapporto della polizia, come mi hanno consigliato.

Alla pizzeria il nostro tavolo abituale è libero; sono arrivato prima degli altri. Siedo. Ciao-Sono-Jean mi lancia un'occhiata e distoglie gli occhi. Un momento dopo arriva Cameron, seguito da Chuy, Bailey ed Eric. La tavola sembra asimmetrica con soli cinque di noi. Chuy sposta la sua sedia verso un'estremità, anche noi ci spostiamo un poco: adesso i posti sono simmetrici.

Vedo la pubblicità della birra con il suo schema di accendi-e-spegni, ma questa sera mi dà fastidio. Guardo altrove. Siamo tutti nervosi. Io devo picchiettare con le dita sulla mia gamba e Chuy gira il collo a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Il braccio di Cameron si muove: sta manipolando il suo dado di plastica nella tasca. Appena abbiamo ordinato, Eric tira fuori la sua penna multicolore e comincia a fare i suoi disegnini.

Vorrei che fossero qui anche Dale e Linda, sembra strano essere senza di loro. Allorché il cibo arriva mangiamo in silenzio. Abbiamo quasi finito quando io mi schiarisco la gola. Tutti mi guardano e poi distolgono gli occhi.

— Talvolta le persone hanno bisogno di un posto dove parlare — dico. — Talvolta si può parlare a casa di qualcuno.

— Si potrebbe parlare in casa tua? — domanda Chuy.

— Si potrebbe — dico.

— Non tutti sanno dove abiti — obietta Cameron. Neppure lui, quanto a questo.

— Qui c'è l'indirizzo e l'itinerario — dico. Tiro fuori di tasca i foglietti preparati e li metto sul tavolo. Uno alla volta, ognuno prende il suo.

— Certe persone devono alzarsi presto — dice Bailey.

— Adesso non è tardi — dico.

— Certe persone dovranno andarsene prima delle altre se le altre si trattengono fino a tardi.

— Lo so — dico.

17

Nel parcheggio del mio palazzo c'è posto per tutte le macchine dei miei visitatori, perché la maggior parte dei residenti non possiede automobili.

Aspetto nel parcheggio fino all'arrivo degli altri, poi li precedo su per le scale. Tutti quei piedi fanno rumore sui gradini; non sapevo che avrebbero fatto tanto rumore. Danny apre la porta.

— Oh… ciao, Lou. Mi chiedevo chi fosse.

— Sono miei amici — dico.

— Bene, bene — annuisce Danny. Non chiude la porta. Io non so cosa voglia. Gli altri mi seguono alla mia porta, io l'apro e li faccio entrare.

È così strano avere altra gente nell'appartamento. Cameron si aggira intorno e infine sparisce nel bagno. Lo posso sentire là dentro. È come quando vivevo in una residenza di gruppo: non mi piaceva molto. Alcune cose dovrebbero essere private: non è piacevole sentire qualcun altro nel bagno. Cameron scarica e io sento l'acqua scorrere nel lavandino; poi lui esce. Chuy mi guarda e io annuisco. Anche lui va nel bagno. Bailey sta guardando il mio computer.

— Io non ne ho uno a casa — dice. — Adopero il palmare per collegarmi con il computer del mio ufficio.

— A me piace avere questo — dico.

Chuy ritorna nel soggiorno. — E adesso?

Cameron mi guarda. — Lou, tu stai leggendo documenti su questo argomento, vero?

— Sì. — Vado a prendere Funzioni del cervello dallo scaffale dove lo ripongo. — Una mia… un'amica mi ha prestato questo libro. Mi ha detto che per cominciare era il migliore.

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