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«Selvaggi.»

Odiedin era un rangma; non aveva potuto fare a meno di pronunciare quella parola, chiaro e forte. Ma Sutty sapeva che era anche un uomo profondo e sincero.

«Ignoravano la Narrazione?»

Una pausa. Odiedin posò la penna. «Molto tempo fa, sì. All’epoca di Penan Teran, sì. Quando è stato scritto Il pergolato, sì. Poi la gente delle pianure centrali, di Doy, cominciò a civilizzarli. Commerciando con loro, istruendoli. Così i dovzani impararono a leggere e a scrivere e a narrare. Ma rimanevano dei selvaggi, yoz Sutty. Preferivano la guerra al commercio. Quando commerciavano, facevano del commercio una guerra. Permettevano l’usura, e cercavano grandi profitti. Avevano sempre dei capi ai quali pagavano tributi, uomini che erano ricchi, e trasmettevano il potere ai propri figli. Gobey… tiranni. Così, quando cominciarono ad avere dei maz, trasformarono i maz in capi, con la facoltà di governare e punire. Diedero ai maz il potere di imporre tributi. Li fecero diventare ricchi. E tutti i figli dei maz erano maz per diritto di nascita. E la gente comune non contava più nulla. Era sbagliato. Era tutto sbagliato.»

«Una volta, maz Uming Ottiar mi ha parlato di quell’epoca. Pareva che se la ricordasse.»

Odiedin annuì. «Io ricordo la fine di quel periodo. Un brutto periodo. Non brutto come questo» soggiunse, con una breve risata aspra.

«Ma questo periodo deriva da quello. Si è sviluppato da quello. No?»

Il maz sembrava dubbioso, meditabondo.

«Perché non lo raccontate?»

Nessuna risposta.

«Non lo raccontate, maz. Non fa mai parte di tutte le storie del mondo di tutte le epoche che voi raccontate. Voi parlate del passato remoto. E raccontate cose della vostra epoca, della vita di gente comune… ai funerali, e quando sono i bambini a raccontare. Ma non parlate di quei grandi eventi. Non dite nulla di come il mondo è cambiato negli ultimi cento anni.»

«Quello non fa parte della Narrazione» replicò Odiedin, dopo un silenzio teso, assorto. «Noi raccontiamo quello che è giusto, quello che va bene, che va come dovrebbe andare. Non quello che va male.»

«Penan Teran hanno perso la loro battaglia, una battaglia con Dovza. Non è andata bene, maz. Però lo raccontate.»

Lui alzò lo sguardo e la fissò, non con aggressività o risentimento, ma da una distanza remota. Sutty ignorava cosa stesse pensando o provando, cos’avrebbe detto.

Alla fine, il maz disse solo: «Ah».

L’esplosione di una mina? O l’assenso sommesso dell’ascoltatore? Sutty non lo sapeva.

Odiedin piegò il capo e scrisse il nome del morto, tre caratteri decisi ed eleganti sulla striscia di carta rossa sbiadita. Aveva preparato l’inchiostro macinandolo da un blocco che portava con sé e sciogliendolo poi con acqua di fiume in un minuscolo vaso di gres. La penna che usava per scrivere era una piuma di geyma, grigio cenere. Avrebbe potuto trovarsi lì, seduto a gambe incrociate sul terreno sassoso a scrivere un nome, trecento anni addietro. O tremila anni addietro.

Sutty non aveva il diritto di chiedergli quello che gli aveva chiesto. Sbagliato, sbagliato.

Ma il giorno dopo, lui le disse: «Per caso, hai sentito gli Indovinelli della Narrazione, yoz Sutty?».

«Non credo.»

«Li imparano i bambini. Sono indovinelli vecchissimi. Quello che dicono i bambini è sempre lo stesso. "Quando finisce una storia? Quando si comincia a raccontarla." Ecco un indovinello.»

«Un paradosso, più che un indovinello» osservò Sutty, riflettendo. «Dunque, gli avvenimenti devono essersi conclusi prima che inizi la narrazione?»

Odiedin parve leggermente sorpreso, come accadeva in genere quando lei provava a interpretare un detto oppure una storia.

«Non significa questo» fece Sutty, rassegnata.

«Potrebbe significare questo» disse il maz. E dopo alcuni istanti: «Penan balzò dal vento e morì: questa è la storia di Teran».

Sutty pensava che Odiedin stesse rispondendo alla sua domanda sul perché i maz non parlassero dello Stato Azienda e degli abusi che l’avevano preceduto. Cosa c’entravano gli antichi eroi con quegli eventi?

Tra la sua mente e quella di Odiedin c’era una distanza così grande che la luce avrebbe impiegato anni per attraversarla.

«Quindi la storia è andata bene, è giusto raccontarla. Capisci?» disse Odiedin.

«Sto cercando di capire» rispose lei.

Rimasero sei giorni nel villaggio estivo nella valle profonda, riposandosi. Poi si misero ancora in cammino, con nuove provviste e due nuove guide, salendo in direzione nord. Salirono, e continuarono a salire. Sutty non contava i giorni. Arrivava l’alba, si alzavano, il sole splendeva su di loro e sui pendii sterminati di roccia e di neve, e camminavano. Arrivava l’imbrunire, si accampavano, il rumore dell’acqua cessava quando i ruscelletti del disgelo gelavano nuovamente, e i viaggiatori dormivano.

L’aria era rarefatta, il percorso ripido. A sinistra, torreggianti su di loro, si ergevano le scarpate e i pendii della montagna su cui si trovavano. Dietro di loro, a destra, una serie di picchi spuntava dalla foschia e dall’ombra, un mare immobile di onde ghiacciate, frastagliate, che si perdevano all’orizzonte lontano. Il sole batteva come un tamburo bianco nel cielo blu. Era mezza estate, la stagione delle valanghe. Procedevano adagio e silenziosi tra i giganti sbilanciati. Più volte, di giorno, il silenzio era scosso da lunghi boati di cui non si riusciva a individuare il punto d’origine, moltiplicati dall’eco.

Sutty sentì pronunciare il nome della montagna su cui si trovavano, lo Zubuam. Una parola rangma: il Tonante.

Non vedevano il Silong da quando avevano lasciato il villaggio nella valle. La mole smisurata dello Zubuam, segnata da profonde scanalature, ostruiva completamente la visuale a ovest. Procedevano adagio, salendo verso nord, salivano sempre verso nord, superando le enormi rughe del fianco della montagna.

Respirare era difficile.

Una notte cominciò a nevicare. Nevicò poco, ma di continuo, per tutto il giorno seguente.

Odiedin e le due guide che si erano unite al gruppo nell’ultimo villaggio estivo si accovacciarono fuori dalle tende, quella sera, e si consultarono, tracciando linee, percorsi, zigzag sulla neve con le dita guantate. La mattina dopo, il sole riprese a brillare sul mare di ghiaccio delle vette orientali. Ricominciò la lenta avanzata, sudando, salendo in direzione nord.

Una mattina, mentre camminavano, Sutty si rese conto che stavano volgendo le spalle al sole. Per due giorni andarono a nordovest, arrampicandosi lentamente attorno all’immenso contrafforte dello Zubuam. Il terzo giorno, a mezzodì, superarono una sporgenza di roccia e di ghiaccio. Di fronte a loro, oltre un grande abisso d’aria, si stagliava l’immane parete: il Silong sorgeva come un’onda candida dal profondo e si offriva in piena luce. Era una giornata limpida, cristallina, calma. La punta del corno della vetta era visibile sopra i bastioni. Dalla cima, strie d’argento sottilissime si protendevano lievi verso nord.

Soffiava il vento del Sud, il vento da cui Penan era balzato, andando incontro alla morte.

«Manca poco, ormai» disse Siez, mentre arrancavano in direzione sudovest, scendendo.

«Credo che qui potrei camminare in eterno» disse Sutty, e la sua mente disse: "Sì, lo farò…"

Durante la sosta al villaggio, Kieri si era trasferita nella sua tenda. Erano le uniche due donne del gruppo prima che le nuove guide si unissero a loro. Fino a quel momento, Sutty aveva diviso la tenda con Odiedin. Il maz — vedovo, celibe, silenzioso, ordinato — era una presenza schiva, rassicurante. Sutty era restia a cambiare sistemazione, ma Kieri aveva insistito. Fino ad allora era stata in tenda con Akidan, ed era stanca di quella compagnia. Aveva detto a Sutty: «Ki ha diciassette anni, è sempre in fregola. Non mi piacciono i ragazzi! Mi piacciono gli uomini e le donne! Voglio dormire con te. Tu vuoi? Maz Odiedin può dividere con Ki.»

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